Presentato in anteprima lo scorso 19 maggio alla 77ª edizione del Festival di Cannes, e vincitore del premio Un Certain Regard per la migliore interpretazione del protagonista Abou Sangare e del Premio FIPRESCI, “La Storia di Souleymane” è il nuovo film del regista francese Boris Lojkine. Un’intesa narrazione, brutalmente realista, sulla vita degli immigrati che lavorano, in contesti di forte precarietà, come rider per le app di food delivery in una Francia spietata.

“La Storia di Souleymane”, recensione

Souleymane Sangare (Abou Sangare) è un bellissimo ragazzo di appena venticinque anni con gli occhi leggermente a mandorla, scuri e profondi come una notte d’inverno nel deserto. Per quanto possa essere alto e avere un fisico naturalmente prestante, che pare scolpito nel marmo, porta in volto un’espressione dolce e triste come quella di un bambino infelice. È scappato dalla Guinea, abbandonando i luoghi in cui è cresciuto, attraversando disperatamente terre e mari sconosciuti, per cercare una vita migliore in Francia. Estremamente educato, coi suoi modi gentili e la sua splendida carnagione color cioccolato, sembra un giovane principe africano; ma anziché girare in carrozza, corre tutta la settimana in giro per Parigi a cavallo della sua bicicletta. Souleymane lavora come rider per conto di una app di food delivery, con un account subaffittato da un suo connazionale che gli trattiene 120 euro a settimana dai soldi che si guadagna strenuamente lavorando quasi ininterrottamente. Sfreccia digiuno per giornate intere, fino a tarda sera, consegnando il cibo d’asporto che lui non può permettersi. Pedala, pedala, pedala fino allo stremo delle forze sotto la pioggia parigina in mezzo a un traffico che a momenti lo inghiotte. Si lancia tra le macchine, rischiando la vita, perché non può fare altrimenti: un minuto di ritardo potrebbe costargli la paga.

Non ha diritti, giorni di malattia, ferie, contributi versati. Solo lui, la sua bici, comprata col sangue e il sudore, e la borsa termica per trasportare le vivande. Fino alle 22, quando deve raggiungere ad ogni costo il piazzale da dove parte l’autobus per gli immigrati che mangiano e dormono in uno dei rifugi comunali della città. Ma neanche quello è così scontato: ogni giorno, dopo la mezzanotte, deve ricordarsi, impostando una sveglia, di chiamare per prenotare in tempo un posto sul pullman per la sera successiva. E se non dovesse arrivare entro l’orario di partenza, gli toccherebbe dormire per strada. Ha già fatto richiesta per domandare asilo in Francia e da settimane si sta preparando per il colloquio, che finalmente si terrà da qui a 48 ore. Ma per riuscire ad ottenerlo, e avere tutti i documenti necessari, è costretto a pagare un altro immigrato sudafricano, che ormai vive a Parigi da anni, che lo prepari al meglio facendogli studiare una storia apparentemente più credibile della sua che gli dia delle maggiori possibilità di riuscita. Ne va del suo futuro, della fatica quotidiana che lo sta consumando, sfibrato come l’arbusto di un albero che non tocca acqua da mesi, e del viaggio che ha affrontato dalla Guinea rischiando la morte. Ma quale sarà la vera storia di Souleymane? Da cosa scappa realmente? O meglio, per chi sta davvero cercando riscatto in un’esistenza migliore?

“La Storia di Souleymane”, critica

Terzo lungometraggio di finzione per il regista francese Boris Lojkine che, a cinquantacinque anni, firma un capolavoro duro e doveroso per la coscienza collettiva. Presentato in anteprima lo scorso 19 maggio alla 77ª edizione del Festival di Cannes, e vincitore del premio Un Certain Regard per la migliore interpretazione del protagonista Abou Sangare e del Premio FIPRESCI, “La Storia di Souleymane” è un toccante dramma contemporaneo che racconta la realtà degli immigrati in Paesi ostili e poco ospitali, ma anche dei lavoratori precari e senza diritti come i rider per le app di food delivery.

Per quanto il film in sé a livello cinematografico, come ad esempio per la fotografia o per le riprese, non abbia nulla di particolare, trovo che sia una delle pellicole d’essai più belle che ho visto negli ultimi anni. Personalmente penso che la scelta di una regia estremamente semplice e scarna sia non soltanto voluta, ma addirittura appropriata per lasciare questo insopportabile spettacolo di 90 minuti il più possibile nella crudezza di un realismo odierno, dove disperazione e sopravvivenza si scontrano fino ad unirsi in quel caos che è la quotidianità di un rifugiato medio. Il racconto procede incessantemente, senza concederti un attimo di respiro, in una narrazione ansiogena, al cardiopalma. Dal primo minuto ti ritrovi catapultato davanti a una verità che spesso fingiamo di non vedere, benché sia costantemente sotto i nostri occhi, e che per questo non conosciamo veramente fino in fondo.

Doloroso e pungente come uno schiaffo inferto da una mano troppo pesante sulla guancia morbida di un bambino, ma maledettamente necessario al punto che non ne consiglierei soltanto la proiezione nelle scuole, ma obbligherei per primi gli adulti a guardarlo. E per chi non volesse, sinceramente, improvviserei una visione forzata come in “Arancia Meccanica”. Il maggior senso di sconforto e di ansia che ti lascia questa storia è la percezione che siamo davvero troppi nel mondo e che purtroppo non c’è posto per tutti. Senza voto perché lo reputo fuori scala, questo è un film che ti rimane dentro.