Vincitore del Grand Prix Speciale della Giuria alla 77esima edizione del Festival di Cannes, “All We Imagine as Light” è il primo lungometraggio di finzione di Payal Kapadiya. Dopo il documentario del 2021 “A Night of Knowing Nothing”, la regista e sceneggiatrice indiana ritorna con un dramma al femminile per raccontare una Mumbai caotica e dispersiva, che cerca di evolversi verso un regime capitalista fatto di sogni e disperazione, che si contrappone alla vita libera ma in povertà all’interno dei villaggi rurali di un’India ancora selvaggia.
“All We Imagine as Light”, recensione
In una caotica e affollatissima Mumbai, in India, Prabha (Kani Kusruti) e Anu (Divya Prabha) sono due amiche che condividono un piccolo appartamento come coinquiline. La prima ha circa quarant’anni e lavora come infermiera caposala in un ospedale della città. È sposata, ma il marito è andato via da tempo non facendole più avere notizie. Si è trasferito in Germania per lavorare e da quel momento non ha più chiamato la moglie, lasciandola sola, come in purgatorio, in attesa di capire cosa farne di se stessa. È diligente e coscienziosa e non si è lasciata inghiottire da un vortice di depressione senza speranza; ha continuato a svegliarsi ogni mattina, preparandosi con cura per andare al lavoro, ha mantenuto la sua professionalità intatta, ma le sue giornate sono diventate spente, adombrate da un grigiore opprimente portato da un vuoto incolmabile.
La seconda, Anu, è più giovane e sta terminando il tirocinio nello stesso ospedale nel quale lavora Prabha, per diventare anch’essa infermiera. A differenza dell’amica è meno posata, più immatura, quasi infantile a volte e non è capace di gestire lo stipendio come dovrebbe. Tra le due c’è un rapporto profondo, fraterno, e proprio come sorelle la più grande si prende cura dell’altra, spesso pagandole anche l’affitto. Prabha le cucina da mangiare, cerca di insegnarle come essere indipendente, si preoccupa per lei al punto da ricordarle finanche di potarsi l’ombrello prima di uscire quando piove. Anu, esattamente come una sorella minore, se pur volendole bene si approfitta un po’ della sua pazienza, si appoggia a lei come se le spettasse, si comporta in modo impulsivo e immaturo come se fosse esonerata dal fare brutte figure agli occhi dell’altra. E, esattamente come un adolescente, ha un fidanzato segreto di cui nessuno, famiglia e amici, conosce l’esistenza. Shiaz (Hridhu Haroon), così si chiama, è musulmano e questo non sarebbe visto di buon occhio dai suoi genitori, senza contare il fatto che in India per tradizione i matrimoni spesso vengono ancora combinati.
Per finire, in tutto questo, c’è Parvaty (Chhaya Kadam) la più grande delle tre e collega di entrambe. È rimasta vedova e vive in un appartamento lasciatole dal compagno, in un palazzo di periferia che però scopre all’improvviso essere abusivo. La compagnia edile a cui appartiene il terreno sul quale è costruito le ha fatto causa, richiedendo ufficialmente lo sfratto. Non riuscendo a dimostrare il diritto alla proprietà di cui le aveva sempre parlato il marito è costretta a licenziarsi, rinunciando alla sua carriera, e a tornarsene nel suo villaggio dove ha ancora una casa. Chiede così a Prabha e Anu e di accompagnarla per darle una mano col trasloco. Tutte e tre si incammineranno in un viaggio verso un luogo dove ognuna avrà modo di esplorare il proprio universo interiore, fatto di insoddisfazioni e paure, e di ritrovare una parte fondamentale di loro stesse.
“All We Imagine as Light”, critica
Secondo lungometraggio per la regista e sceneggiatrice indiana Payal Kapadiya che, dopo il documentario del 2021 “A Night of Knowing Nothing”, lo scorso 23 maggio ha presentato in anteprima al 77º Festival di Cannes “All We Imagine as Light”, una storia drammatica ambientata a Mumbai che narra le vicende di tre donne, amiche e colleghe, di generazioni differenti. Nonostante sia sempre affascinante poter dare un’occhiata ravvicinata alla quotidianità di chi vive immerso in realtà, luoghi e usanze ben diverse da quelle occidentali, questo è un film che fa fatica a prendere forma. Forse colpa anche del pessimo doppiaggio, coi dialoghi che risultano forzati come in una pubblicità progresso per le scuole medie, personalmente ho avuto difficoltà a comprendere dov’è che volesse andare a parare. Che sì, indubbiamente questo è un incrocio di tre storie che hanno il compito di raccontarci l’universo femminile in Paesi che non hanno ancora raggiunto la civiltà piena in fatto di diritti, ma spesso si perde il filo e l’efficacia della narrazione. Per quanto la trama avesse degli ottimi spunti, principalmente per puntare i riflettori sulle condizioni di vita in Stati sottosviluppati come l’India, non ho riscontrato uno svolgimento lineare, marcato e che tenesse la soglia dell’attenzione sempre vigile.
A tratti impantanato in un vicolo cieco, a tratti un po’ soporifero, mi è apparso come un tema scolastico dalle grandi potenzialità ma elaborato da qualcuno che ancora non sa come impostare al meglio un testo scritto. Non tutto però è da rifare: ci sono delle scene e dei dettagli molto belli che non soltanto valgono la pena di essere visti, ma che meritavano decisamente di essere valorizzati meglio di così. Il primo tempo evolve in modo lento, oserei dire noioso, e neanche la recitazione risulta granché. Ma è dal secondo atto che si incomincia a intravedere uno spiraglio di luce, andando incontro ad attimi di godibile emotività. Forse proprio perché da quel punto in poi le tre protagoniste si spostano in un villaggio rurale, in riva al mare, dove tutto acquista un sapore magico e incantevole, se pur mostrando gli evidenti limiti delle soluzioni abitative in contesti di estrema povertà e arretratezza nello sviluppo economico, soprattutto a livello di servizi primari. Insomma, buono a metà. Due virgola nove stelle su cinque.