Una sentenza arrivata lo scorso 12 luglio e che oggi, a distanza di 90 giorni, viene spiegata in cinquantuno pagine dalla Corte D’Assise d’Appello di Roma. Perché i Mottola sono stati assolti per l’omicidio di Serena Mollicone avvenuto nel 2001?

“Questa Corte ritiene di non avere le prove della colpevolezza degli odierni imputati”

si legge sul documento.

Processo Mollicone, perché i Mottola sono stati assolti in appello? Le motivazioni della sentenza

Una sentenza di colpevolezza per l’omicidio di Arce “sarebbe costruita su fondamenta instabili”, sottolineano ancora i giudici nella sentenza con cui, il 12 luglio 2024, hanno confermato l’assoluzione– già stabilita in primo grado- per i tre imputati. Ossia Franco Mottola, la moglie Annamaria e il figlio Marco.

Non mancano i riferimenti

“Il convincimento del giudice (che non è mai “libero” – come erroneamente a volte si dice – ancorato com’è a rigorosi criteri di valutazione delle prove, di cui deve dar conto con una congrua motivazione) non può e non deve fondarsi sui sondaggi o sugli umori popolari. Qui, nelle aule di giustizia, non può albergare la polemica frase (scritta, peraltro, cinquant’anni fa, in un articolo di analisi storico-politica, non giudiziaria) di un noto intellettuale: “io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi’”.

I giudici hanno elencato i punti per cui mancano prove certe per poter giudicare la famiglia Mottola ‘colpevole’. Tra questi, sottolineano, anche il luogo in cui la 18enne sarebbe stata uccisa: secondo l’accusa, la caserma dei Carabinieri di Arce.

“Non è certo che la ragazza sia entrata in quel luogo, non è certo che sia stata scagliata contro la porta, ancora più incerto è che la seconda parte dell’aggressione alla sua persona (quella, letale, dell’imbavagliamento e dell’asfissia) sia avvenuta nella stessa Stazione.”

Elementi resi ancora più incerti dalla “mancata prova del movente rivelatosi evanescente” si legge sulla sentenza.

I giudici: “Il maresciallo Mottola non ha contribuito ai depistaggi”

I giudici si soffermano inoltre sui comportamenti attributi al maresciallo Mottola, sia prima che al di fuori dell’aula, che facevano riferimento ad azioni di depistaggio.

Va subito detto che ad alcune ‘storture’, avvenute nel corso delle indagini, tale imputato non ha affatto contribuito. L’errore di alcune cifre del numero telefonico del figlio Marco in sede di richiesta dei tabulati telefonici è una defaillance verificatasi quando le indagini erano svolte dalla Polizia

si legge ancora sulle motivazioni della sentenza d’appello.

Mancanza di prove anche per quanto riguarda il cellulare di Serena e l’ipotesi che fosse stato piazzato nella sua abitazione dal Maresciallo o su sua istigazione, dato che era stato trovato solo dopo l’ennesima perquisizione.

“Altrettanto dicasi per la scomparsa di alcuni organi interni del corpo di Serena. Ciò precisato, risultano ridimensionate le doglianze di tutti gli appellanti (…) in merito alla presunta sottovalutazione da parte della sentenza impugnata delle ‘anomalie’ intervenute nella fase delle indagini e delle contraddizioni contenute nelle dichiarazioni degli imputati. Peraltro, la Corte di primo grado non ha affatto evitato di confrontarsi con le disarmonie dei racconti degli imputati e con gli aspetti asseritamente o realmente distonici nella conduzione delle indagini”

scrivono ancora i giudici. Allo stesso tempo, sottolineano i forti sospetti

“che comportamenti decisamente ‘irregolari’ (in primis le mancate verbalizzazioni), stigmatizzati dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Cassino e dai vertici dell’Arma in vista del trasferimento del sottufficiale siano stati qualcosa di più e di diverso di condotte professionalmente maldestre.”

La difesa: “Piano accusatorio inconsistente”

Il criminologo Carmelo Lavorino, a capo del pool della difesa della famiglia Mottola, ha commentato le motivazioni della sentenza. Il legale ha evidenziato come riconoscano “la nullità, l’inconsistenza e la totale incertezza dell’impianto accusatorio”. Dando quindi ragione alle critiche mosse sia nei confronti delle accuse che al metodo con cui sono state condotte le indagini, nonché al loro lavoro.

“La sentenza ha dato ragione alla difesa degli imputati che Serena non è entrata in caserma per andare da Marco Mottola, che la porta non è l’arma del delitto, che la prova scientifica portata dall’accusa né è prova e né è scientifica, che contro gli imputati vi sono stati sospetti basati sul nulla, che gli indizi si sono sciolti come neve al sole”

conclude la nota di Lavorino, che rivolge anche un pensiero a Serena e alla sua famiglia:

con l’auspicio che finalmente le indagini vadano a puntare i veri colpevoli (e noi siamo pronti a collaborare in tal senso).

La vicenda infatti, dopo 23 anni e tanto dolore, non ha ancora un colpevole.