Sono passati 61 anni da quella notte del 1963, quando l’acqua e la terra produssero un’esplosione di energia pari a quella di un ordigno nucleare. Una forza che si abbatté contro i cittadini inermi della valle del Piave, radendo al suolo Longarone e altri comuni vicini, sterminando 1910 persone. È la tragedia del Vajont, un disastro la cui memoria torna viva soltanto nel giorno del suo anniversario come oggi, 9 ottobre 2024.

Una memoria corta e drammaticamente approssimativa, andando a scorgere i messaggi commemorativi affidati ai social di alcuni alti rappresentanti dello Stato. Torna, tra le righe e non solo, l’idea della ‘disgrazia’, della ‘sciagura’ causata da una pura fatalità, incontrollabile e imprevedibile quanto crudele. Tuttavia, la storia e la memoria, opportunamente conservate, raccontano ben altro.

Le istituzioni ricordano la tragedia come un fenomeno naturale, ma fu tutt’altro

Erano le 22:39 di quel 9 ottobre, quando una frana di proporzioni immani precipitò dal monte Toc sul bacino artificiale prodotto dalla diga del Vajont alla velocità di circa 110 km orari. L’onda che ne derivò, alta 250 metri, si schiantò, prima, contro il versante opposto della valle, spazzando via i comuni di Erto e Casso, per poi scavalcare la diga e abbattersi nella valle sottostante con tutta la sua furia, di potenza paragonabile a quella di un’esplosione nucleare.

Questa è la tragedia, con il suo carico di lacrime e rabbia. Alla sua origine, tuttavia, ci sono scelte e decisioni dell’uomo, determinate da un’avidità disposta a tutto pur di alimentare se stessa. Anche a distruggere un territorio, ignorando consapevolmente le sue caratteristiche ambientali, e a passare sopra una pila di quasi 2mila cadaveri.

Eppure, di queste responsabilità non si ritrova traccia nei messaggi di cordoglio di alcune tra le più alte cariche istituzionali del nostro Belpaese, dove appare decisamente lontana la sensibilità mostrata lo scorso anno dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella (“Occuparsi dell’ambiente e rispettarlo è garanzia di vita“, aveva detto nella sua visita ai comuni colpiti).

Messaggi in cui la tragedia del Vajont continua a essere raccontata come un fenomeno naturale, indipendente dall’intervento umano. Ecco, dunque, Ignazio La Russa, seconda carica dello Stato, parlare su Facebook di “evento tragico“, invitando a “lavorare per la sicurezza del nostro territorio” per prevenire i “rischi legati al dissesto idrogeologico“.

Il presidente del Senato corregge il tiro in occasione del minuto di silenzio che l’aula di Palazzo Madama riserva al ricordo delle vittime, parlando di un evento che “avvenne anche, o soprattutto, per gravi responsabilità umane“. Ma ormai la ‘frittata’ era fatta.

Più accorto, ma non di molto, l’intervento de presidente della Camera, Lorenzo Fontana, che richiama a “un approccio responsabile alla gestione delle risorse naturali” e alla necessità dell’ascolto dei territori. Territori che, in effetti, non furono ascoltati nei lunghi mesi precedenti al disastro del 1963.

Decisamente peggio fa il ministro per la Protezione civile Nello Musumeci, che tira in ballo la “prevenzione strutturale” da effettuare nell’ambito di una “costante verifica del proprio territorio“. Parole nel quale non si scorgono nemmeno in filigrana accenni agli interventi criminali compiuti dalla Sade – la società privata che costruì la diga – su quella vallata, al solo scopo di completare un impianto a sfregio degli avvertimenti che arrivavano dagli esperti e proprio dai territori sui rischi di tale operazione.

Meloni e il disastro del Vajont come “tragedia che poteva e doveva essere impedita, provocata dall’incuria dell’uomo”

Operazione mossa da un unico fine: l’avidità. Se la Sade fosse riuscita, infatti, a completare la diga nei tempi stabiliti (anche grazie a ingenti finanziamenti pubblici), avrebbe potuto rivenderla allo Stato, traendone un profitto considerevole.

Di questo vero e proprio crimine non c’è traccia negli interventi citati. Così come dell’ingiustizia che vi fece seguito, con un processo conclusosi con la condanna di soltanto due degli undici imputati, il responsabile tecnico Alberico Biadene e il membro della commissione di collaudo della diga Francesco Sensidoni, peraltro con pene irrisorie.

Gli unici cenni si ritrovano nei tweet di Matteo Salvini e della presidente del Consiglio Giorgia Meloni.

Il primo ricostruisce la vicenda parlando di “tragedia da ricordare e commemorare ancora oggi” e aggiungendo, tra parentesi, “che si poteva evitare“.

Più dura la premier, che sottolinea come rischi e pericoli che erano stati individuati e preallertati che, però, rimasero inascoltati.

Meloni parla, erroneamente, di una vicenda causata “dall’incuria dell’uomo, come se a provocarla fosse stata una disattenzione dovuta a superficialità o sbadataggine e non un cinico e spietato calcolo affaristico.

Tuttavia è un’imprecisione su cui si può sorvolare, di fronte alle rare parole necessarie pronunciate su una delle ferite più gravi nella storia d’Italia.