Presentato in anteprima all’81ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia nella sezione Orizzonti, “Familia” è il secondo lungometraggio firmato dal regista Francesco Costabile. Il film si basa sulla vera storia di Luigi Celeste, ragazzo condannato a nove anni di carcere per l’uccisione del padre, già narrata nell’autobiografia “Non Sarà Sempre Così”.

“Familia”, recensione

In un condominio nella periferia di Roma, a piano terra, vive una famiglia all’apparenza come tante altre. Un appartamento dall’arredamento spartano, un po’ pacchiano un po’ lugubre, che da subito lascia intuire in che condizioni modeste viva quel nucleo familiare. Il padre, Franco (Francesco Leva), è campano e lavora come macellaio. La madre, Licia (Barbara Ronchi), è romana e lavora facendo le pulizie per conto di un’impresa. Hanno due figli ancora piccoli: Alessandro (da bambino Stefano Valentini, da grande Marco Cicalese), il più grande, e Luigi (da bambino Francesco de Licia, da grande Francesco Gheghi). Licia li ama moltissimo e spesso li stringe a sé talmente forte che è quasi come li portasse ancora in grembo, ma è costretta a lasciarli soli la maggior parte del tempo. E così entrambi stanno crescendo liberi come due piccoli gatti randagi. Hanno imparato presto a prepararsi da mangiare da soli, a rientrare a casa quando ad aspettarli non c’è nessuno, a custodire scrupolosamente in tasca un mazzo di chiavi come fossero già adulti. Abbandonati a loro stessi, hanno stretto fra di loro un intricato legame ad intreccio come due orfani.

In questa quotidianità, che urla disperazione, sembra che il padre non esista; ma Franco esiste eccome e, anche nella sua assenza, aleggia nell’aria il peso dei suoi gesti, gravoso come tonnellate di sassi che ti piovono addosso. Franco è un uomo violento e picchia Licia ad ogni mutamento d’umore. Alessandro e Luigi hanno imparato sin da piccoli a riconoscere i rumori, a capire quando bisogna fare silenzio, quando bisogna chiudersi in camera e aspettare che quei suoni spaventosi finiscano. Ma dopo anni di terrore, di dolore profondo e nero come il catrame, che ti si appiccica addosso dandoti continuamente il tormento, Licia si decide a denunciare il marito. Quella famiglia, che a guardarla dal di fuori pareva tanto normale, si spacca separandosi in tre: Franco viene arrestato, Alessandro e Luigi vengono portati in un istituto dove vivranno per i quattro anni successivi e Licia, annientata e annichilita da un senso di colpa che non dovrebbe appartenerle, rimane sola e distrutta in quell’appartamento a piano terra che ora detesta.

2008. Passati dieci anni i figli, ormai maggiorenni, vivono nuovamente con la madre. Alessandro, scrupoloso e attento, lavora cercando di rendersi indipendente aiutando Licia. Luigi, invece, pare non essere mai riuscito a crescere per davvero; non ha un impiego, ha lasciato la scuola e passa tutte le mattine dormendo fino a tardi. Frequenta un gruppo di neofascisti e ha fatto dell’aggressività il suo unico mezzo comunicativo. Ama la mamma più di se stesso, non riesce a staccarsene come fosse ancora bambino, ed è rimasto impantanato in un fosso freddo e buio, senza uscita, come avesse un disperato bisogno che sia lei a salvarlo, prendendosene cura. I suoi gesti sconsiderati sono un grido straziante d’aiuto di chi ha bisogno di carezze, di nascondersi fra le braccia materne stringendosi violentemente al suo ventre quasi a volerci tornare dentro. Essendo cresciuto selvaggio, nell’ingiustizia, l’unica lingua che ora conosce è quella della rabbia. Ma all’improvviso il padre lo cerca, tenta di riavvicinarsi a lui, al fratello, alla madre. Cos’ha fatto Franco in quegli anni? Avrà lasciato spurgare tutta quella malvagità, come fosse veleno che sgorga da una ferita infetta? Sarà stato in grado di espiare i suoi peccati, ritrovando pace nella redenzione?

“Familia”, critica

Tratto dal romanzo autobiografico “Non Sarà Sempre Così” di Luigi Celeste, che nel 2008 uccise il padre Franco Celeste e che fu poi condannato a nove anni di reclusione, “Familia” è il secondo lungometraggio alla regia per Francesco Costabile. La pellicola è stata presentata in anteprima all’81ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia nella sezione Orizzonti. L’attore Francesco Gheghi, che interpreta la parte del protagonista Luigi, è stato premiato, durante il festival, per la miglior interpretazione maschile. Girato interamente a Roma tra il Tufello, la Rustica e Quartaccio, il regista ha puntato tutto su delle riprese molto ravvicinate, claustrofobiche, per raccontare gli attimi di violenza, accrescendo il senso di soffocamento, privo di ogni speranza, di una storia cruda e truculenta.

124 minuti di tensione struggente senza tregua, senza un attimo di respiro. Ti ritrovi letteralmente in apnea, immobile, cercando di non far rumore, mentre ti si palesa davanti agli occhi un crescendo di aggressività e, come se fossi un bambino che assiste inerme, rimani terrorizzato, senza alcuna forza per poter reagire. Anche nelle scene finali, quando viene raccontata la ritrovata redenzione di Celeste durante e dopo il periodo di detenzione in carcere, non troviamo uno scenario speranzoso e stucchevole da fiction Rai. Rimane prepotentemente rigido fino all’ultimo: sullo schermo appare una scritta bianca su sfondo nero, che ci racconta il riscatto di un ragazzo cresciuto in cattività come le bestie, nello smarrimento della coscienza, che ha ritrovato se stesso. Cupo, sofferto, feroce, doloroso, turpe, disperato. Un pugno dritto alla gola che ti toglie la capacità di respirare. Un film bellissimo e crudele, che mi ha fatto male, al quale non mi sento di dare un giudizio. Splendido, ma scioccante come una lama affilata di coltello che d’improvviso ti lacera le carni.