La regista romana Francesca Comencini torna in sala con il suo nuovo film “Il Tempo che ci Vuole”, un dolce capolavoro drammatico che racconta il profondissimo e viscerale rapporto col padre, morto nel 2007, Luigi Comencini, noto regista italiano. L’opera è stata presentata in anteprima, fuori concorso, il 7 settembre 2024 all’81ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Troviamo Romana Maggiora Vergano e Fabrizio Gifuni nel ruolo dei due protagonisti.

“Il Tempo che ci Vuole”, recensione

In un grande appartamento di un quartiere benestante di Roma vive una bambina di nome Francesca (Anna Mangiocavallo). Ha gli occhi luminosi e talmente espressivi che a osservarli ti pare quasi di poter vedere i suoi pensieri riflessi come diapositive sulle sue pupille. Una bellissima finestra che affaccia direttamente su un vivace universo di emozioni incontenibili che vivono nel piccolo cuoricino palpitante di una bimba di circa otto anni.  È un poco timida, taciturna, e quando per caso poggia lo sguardo su qualcosa che la affascina rimane incantata a guardare, senza riuscire neanche più a muoversi. Possiede una fantasia profonda ed esplosiva che quando viene ispirata le fa immaginare magici scenari incantati, simili ai film di Méliès.

Suo padre, Luigi (Fabrizio Gifuni), è uno stimato regista italiano che del suo lavoro ne ha fatto una ragione di vita. Anzi, più che un motivo per vivere, l’ha reso un sollievo per l’anima. È profondamente convinto che il cinema debba esistere per far divertire la gente, per regalargli un mezzo per sfuggire alle brutture dell’esistenza umana. Non è per lui un confessionale nel quale rivelare i propri peccati in cerca di espiazione, ma è piuttosto come un dono per lo spettatore, come regalare un biglietto per una destinazione sconosciuta nella quale perdersi e rifugiarsi nei momenti più bui. Tutto per riuscire a vedere gli occhi degli altri pieni di sogni. È un uomo intelligente Luigi, che ha uno stretto rapporto di vicinanza con Francesca. La porta con sé ovunque, anche sui set cinematografici. Con lei è paziente ed è come affascinato dal suo carattere individualista e caparbio; quando lei si impunta su qualche cosa, anziché arrabbiarsi ride di gusto, osservandola ammirato nella sua rivendicazione d’indipendenza. Fa sì che lei esprima la sua creatività in maniera libera, lasciando che la sua personalità si formi naturalmente, andando nella direzione che la natura preferisce. C’è un legame profondo fra padre e figlia, ma è anche unico ed esclusivo al punto che pare quasi che parlino una lingua che solo loro due conoscono.

Francesca (Romana Maggiora Vergano) cresce, cresce, fino a diventare una giovane donna adolescente, ma conservando ancora quegli occhi grandi e così espressivi che osservandoli ti senti improvvisamente ferito, come se la lama affilata di un pugnale ti squarciasse le carni. Gli anni della sua gioventù sono gli anni della ribellione politica, delle rivolte, delle manifestazioni in piazza, della rivoluzione giovanile, della nascita del Rock&Roll: Francesca diventa adulta lungo il decennio che va dal 1970 al 1980. Ma, oltre alla musica e alla politica, c’è un’altra cosa che inizia a diffondersi a macchia d’olio come la peste. Una dipendenza, calda e dolce come il perdersi sprofondando fra le cosce di una cortigiana, che danza lungo l’ago affilato di una siringa. L’eroina balla, muovendosi sinuosamente a ritmo di una musica diabolica che esce direttamente dalla bocca dell’inferno, guardandoti vogliosa e affamata con lo sguardo supplicante di chi ti prega di soddisfare quella sua fame insaziabile. E quell’appetito Francesca decide di appagarlo lanciandosi tra le braccia brucianti, come quelle di Lucifero, di una droga che mentre ci fai l’amore ti uccide, pugnalandoti a morte.

E intanto che lei si distrugge di nascosto, Luigi inizia lentamente a capire. Come un cane abbandonato si aggira per casa a testa bassa, cercando disperatamente quella bambina di cui era tanto innamorato che è stata rimpiazzata da una ragazza diventata di colpo triste e ostile. Un tormento straziante gli fa esplodere in petto un dolore così forte da ridurgli il cuore in brandelli, che lo avvilisce a tal punto da farlo invecchiare di colpo stremato, quasi esanime, lasciandolo senz’armi. Quando in lui il sospetto diviene certezza, decide però di ritrovare le forze che il suo recente stato di salute cagionevole non gli consentirebbero. Ma l’affetto folle e incondizionato di genitore fa in modo che ci riesca e così prende la figlia e la porta con sé a Parigi per tentare, a ogni costo, di salvarla in una ritrovata guarigione. E quando, poco prima di partire, lei gli chiede: “per quanto tempo staremo via?” lui le risponde sorridendo: “il tempo che ci vuole”.

“Il Tempo che ci Vuole”, critica

Il 7 settembre scorso all’81ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia è stato presentato in anteprima, fuori concorso, “Il Tempo che ci Vuole” il dolorosissimo e commovente capolavoro di Francesca Comencini. Francesca scrive e dirige un film di rara bellezza per raccontarci la sua storia e il legame spesso e intenso tra lei e il padre Luigi Comencini, uno tra i registi italiani più ricordati della storia del ‘900. Questa pellicola fortemente drammatica ripercorre anche gli anni delle Brigate Rosse, del rapimento di Aldo Moro, della strage di piazza Fontana. Ma ci parla pure di Méliés, di Rossellini, della magia meravigliosa che è il cinema, che prende forma proiettata su di un telo bianco a luci spente.

Grazie alla sorprendete bravura di Romana Maggiora Vergano e di Fabrizio Gifuni, che interpretano i ruoli principali, possiamo emozionarci senza freni davanti a uno spettacolo dilaniante e bellissimo. La regista, in questa sceneggiatura autobiografica, sceglie di isolare il rapporto fra lei e il papà dentro a una bolla dove a esistere ci sono soltanto loro due. Difatti più si sviluppa la trama, più si dà per scontato che la protagonista sia orfana di madre e che non ci siano altri figli. Ma nella realtà la Comencini una mamma ce l’ha avuta e pure tre sorelle! Questa scelta di regia però ha reso l’intero racconto più efficace, dandoci la reale dimensione di un’unione particolare e rara, legata da una devozione comune nei confronti della macchina da presa.

Un’altra scelta molto coraggiosa è quella di mettersi completamente a nudo dinnanzi allo spettatore, permettendoci di osservare quella che è stata la sua più grande debolezza, il suo più grave peccato, per mostrarci ancor meglio il profondissimo amore paterno e la via di salvezza riscoperta grazie a lui, che l’ha accompagnata per mano lungo il difficile distacco dall’eroina. Benché qualcuno abbia fatto un appunto giusto sul finale, io invece l’ho trovato splendido e straordinario. Un delicatissimo modo di raccontare la morte omaggiando ulteriormente Méliès, per sottolineare fino all’ultimo respiro la passione viscerale per il cinema. Quattro stelle e mezzo su cinque.