Lo scorso 19 settembre è uscito nelle sale italiane il giallo drammatico “La Misura del Dubbio”, diretto e interpretato dall’attore e regista Daniel Auteuil. La sceneggiatura è stata ispirata da un fatto di cronaca nera realmente accaduto in uno dei comuni della Camargue, in Francia, già raccontato dall’avvocato francese Jean-Yves Moyart, morto nel 2021 all’età di 53 anni, nel libro “Cronache della Giustizia Penale Ordinaria”. Il film è stato presentato in anteprima alla 77ª edizione del Festival di Cannes.
“La Misura del Dubbio”, recensione
A ridosso delle terre incantate, dalle tinte fiabesche, della Camargue sorge un piccola comunità silenziosa. Nella sua tranquillità imperturbabile sembra che nulla possa guastare il sonno dei suoi abitanti. Ma è nel bel mezzo di una grigia giornata invernale che una schiera di poliziotti bussa con insistenza alla porta di Nicolas Milik (Grégory Gadebois). Proprio una di quelle mattine dove una fitta foschia biancastra, che appare quasi come una nube tossica che a momenti ti soffoca, nasconde l’azzurro rassicurante del cielo più sereno, portando con sé un triste presagio di sventura. Ed è giustappunto la sciagura ad abbattersi, all’improvviso, nera e fulminea sull’esistenza di Nicolas, come una ghigliottina affilata pronta a mozzargli il capo di netto. Il signor Milik è un uomo dall’apparenza innocua, mite nel suo carattere serafico e di poco polso, amabile coi suoi cinque figli ancora piccoli e con sua moglie, ormai diventata un incubo. Quest’ultima, già da qualche anno, ha preso l’abitudine di bere facendone una dipendenza vitale che l’ha resa schiava, fino quasi a consumarla.
Suo marito è un uomo buono, di circa cinquant’anni, che porta sul volto tondo un’espressione che fa trasparire chiaramente quanto poco sia sveglio. È un tipo tranquillo Nicolas, parla poco e quando lo fa sembra quasi un bambino, con la sua calma, la sua ingenuità disarmante e la tendenza a giustificare ogni cosa. Per quanto la sua figura sia imponente, alto e largo come un armadio, a guardarlo non incute il minimo terrore: ha il girovita abbondantemente appesantito che gli conferisce l’aspetto simile a quello di un orso dei cartoni animati, ha le guance tonde, senza neanche un filo di barba e colorite di un rosa vispo che spicca a contrasto con la carnagione chiara. L’attaccatura dei capelli che si sta facendo sempre più diradata lascia il posto a una fronte larga e spaziosa, e i suoi occhi verde smeraldo dall’aria dolce ti osservano timidamente quando incroci il suo sguardo. Tutto di lui più che un mostro lo fa apparire come un personaggio sfortunato di un romanzo ottocentesco di Dostoevskij e difatti pare impossibile, inverosimilmente scioccante, che sia stato appena accusato dell’assassinio della consorte, trovata pugnalata a morte stesa su un prato a pochi metri da casa.
Si dichiara innocente, ma con lo smarrimento di un bimbo lasciato solo in mezzo alla strada. Sarà proprio questo evento inatteso a far incontrare la vita dell’imputato con l’esistenza annichilita dal peso del senso di colpa dell’avvocato d’ufficio Jean Monier (Daniel Auteuil). Monier qualche anno fa era uno stimato professionista di successo, fino a quando non ha fatto assolvere un suo cliente accusato d’omicidio che una volta scarcerato ha ucciso ancora. Sono passati quindici anni dal suo ultimo caso penale e da allora si rifiuta di difendere chiunque venga incolpato di un crimine efferato e violento. Ma l’evidente incapacità di Nicolas di far del male anche solo a una mosca farà rinascere in lui la voglia di tornare in un’aula di tribunale per caldeggiare strenuamente per qualcuno, a parer suo ingiustamente accusato di un delitto mai commesso. Ma sarà davvero così?
“La Misura del Dubbio”, critica
Quinto lungometraggio diretto dall’attore e regista Daniel Auteuil che, con “La Misura del Dubbio”, porta sul grande schermo una storia realmente accaduta già narrata nel libro “Cronache della Giustizia Penale Ordinaria”, scritto dall’avvocato francese Jean-Yves Moyart tristemente morto nel 2021 a soli 53 anni. Auteuil, che in questo giallo fortemente drammatico interpreta anche la parte Jean Monier, ritorna dietro la macchina da presa a distanza di sei anni dal suo ultimo film “Sogno di una Notte di Mezza Età”, scegliendo ancora una volta uno stile d’impostazione fortemente teatrale, lanciandosi però nel genere legal drama differentemente da quella che finora è stata la sua consuetudine da regista. La spinta per affrontare questa nuova avventura è partita da sua figlia Nelly, che lo ha convinto a sperimentare nuovamente l’esperienza di dirigere un prodotto per il cinema.
La pellicola si concentra principalmente sul decorso processuale scegliendo di girare la maggior parte delle scene all’interno di un’aula di tribunale, raccontando la storia dei protagonisti attraverso il processo giudiziario. Le poche altre immagini che abbiamo a disposizione ci vengono date da piccoli flashback durante la ricostruzione dei fatti, in aggiunta a qualche frammento della vita personale dell’avvocato Monier. Con una vicenda dal solido spessore umano come questa, non ho apprezzato la scelta di accentrare l’attenzione solo esclusivamente sul rapporto tra difensore e cliente. L’intero film rimane sospeso eccessivamente in aria, senza mai scavare nelle esistenze dei protagonisti e neanche nella vicenda in sé. Se la regia puntava tutta sull’obiettivo di lasciare fino all’ultimo il dubbio sulla colpevolezza o meno dell’imputato, si poteva comunque dragare più in fondo nel vissuto e nella quotidianità dei personaggi. Per quanto abbia largamente apprezzato lo scioccante finale, trovo che con una storia simile si sarebbe potuto girare un capolavoro in grado di straziarti l’anima e di ferirti già dal primo minuto. E invece ti schiaffeggia soltanto alla fine. Più che un thriller per il grande schermo mi ha ricordato quei polizieschi soporiferi creati appositamente per la tv, tipo la serie franco-belga “Delitto a…”. Peccato. Due virgola nove stelle su cinque.