Lo scorso 4 settembre è uscito nei cinema italiani “Taxi Monamour”, il quarto film alla regia per il regista Ciro de Caro. Sceneggiatura scritta a quattro mani insieme alla coprotagonista Rosa Palasciano, questa storia ci racconta la solitudine e l’universo femminile attraverso un’insolita amicizia tra due ragazze dal carattere problematico.

“Taxi Monamour”, recensione

Anna (Rosa Palasciano) ha circa trent’anni e convive con un uomo molto più grande di lei. Ha una strana malattia che le causa degli improvvisi mancamenti. Non lavora, anche se tenta disperatamente di trovare un impiego nonostante la sua condizione di salute. Per il momento non le possono rinnovare la patente, che sta per scadere, strappandole forzatamente un altro pezzo della sua libertà. Non ha amici, passa ogni giorno immersa nell’angoscia opprimente di chi ha troppo tempo libero, che diviene come una condanna da scontare da soli. Come se non bastasse ha un complicato rapporto con la madre Anita (Laurentina Guidotti), ansiosa e un po’ sopra le righe, e il padre l’ha abbandonata da tempo, facendo perdere le sue tracce. Ha due fratelli: Angelo (Valerio di Benedetto), che anche lui non ha ancora trovato il suo posto nel mondo, al quale è legata in una maniera quasi adolescenziale, e Antonio (Matteo Quinzi), il più grande dei tre, che lavora come presentatore in tv. Tra Angelo e Anna, che agli occhi della mamma sono come due brutti anatroccoli essendo perdutamente innamorata di Antonio, suo favorito, c’è un rapporto di stretta confidenza che li tiene uniti in una maniera naturalmente goffa e un po’ infantile, come due gemelli che si cullano a vicenda nel grembo materno.

Ma ciò nonostante Anna si sente abbandonata dall’intero universo, dimenticata e annichilita dal peso che si porta dietro il silenzio quando le giornate sono troppo lunghe e difficili da sopportare.  Neanche il compagno Leo (Ivan Castiglione) le è di aiuto, essendo spesso assente stando via mesi per lavoro. Inoltre la differenza di età fra i due crea irrimediabilmente un’incapacità dell’uno a comprendere fino in fondo il malessere generazionale ed esistenziale dell’altra, utilizzando entrambi un linguaggio emotivo differente per comunicare. Lui funge, come nel più classico dei cliché, da appiglio per restare in piedi, sostituendo la figura paterna mancante. Non è un marito, non è neanche un vero fidanzato, non è neppure una presenza costante: è semplicemente un punto fermo intorno al quale ruota lo smarrimento di Anna, che non sa proprio che direzione prendere per divenire finalmente adulta a tutti gli effetti. È incapace di creare relazioni sane e mature, come se avesse paura del prossimo, è spaventata dai saluti e dagli addii, ma ha un atteggiamento entusiastico e imbranato nei confronti degli altri come fosse ancora una ragazzina dodicenne.

Nadiya (Yeva Sai) ha più o meno vent’anni ed è scappata via dall’Ucraina a causa della guerra. Vive a casa degli zii, insieme al cugino, ma anche lei si sente sempre sola. È costretta a lavorare come badante, ma non possiede né la voglia né la tempra per un mestiere simile. A vederlo così potrebbe sembrare un atteggiamento capriccioso di chi non vuole crescere e rendersi indipendente, ma dietro questo rifiuto netto si nascondono delle aspirazioni soffocate di chi ha il pieno diritto di sognare un futuro migliore seguendo le proprie ambizioni. Nadiya è troppo giovane per trincerarsi volontariamente in una quotidianità dal grigiore netto, senza alcuna sfumatura. L’Italia non è il Paese per lei, Roma non le piace, vuole tornarsene a casa sua, avere la possibilità di cresce e diventare grande nella terra che sente appartenerle fin dentro le viscere. Ma il suo brutto carattere spesso rende davvero difficile riuscire a comprenderla; è scontrosa, antipatica, taciturna, dai modi sbrigativi e passivamente aggressivi. Dietro questo gigantesco castello di rabbia si nasconde una ragazza che ha visto interi palazzi crollarle davanti, che ha il terrore cieco di legarsi a chiunque, che ha scelto l’ostilità come mezzo per convivere col suo insopportabile, enorme, dolore opprimente.

Una sera, per caso, a una fermata dell’autobus le due si incontreranno e, se pur a fatica, come due cani randagi cominceranno ad avvicinarsi. Ognuna coi propri disagi, con la propria incapacità di rapportarsi al prossimo in modo normale, lentamente si aprirà all’altra creando un inaspettato rapporto di amicizia profondo, nella sua apparente superficialità, che cambierà per sempre la vita di entrambe.

“Taxi Monamour”, critica

Quarto lungometraggio per il regista romano quarantanovenne Ciro de Caro che presenta “Taxi Monamour”, uscito nelle sale italiane lo scorso 4 settembre. La sceneggiatura, scritta da de Caro stesso insieme a Rosa Palasciano (che interpreta anche la parte di Anna), ci racconta la storia di una bizzarra e bellissima amicizia che nasce tra due ragazze dal carattere insolito e difficile, ognuna a modo proprio.

Fotografia semplice, per nulla patinata, riprese molto ravvicinate: questo film, senza fronzoli, rappresenta in tutto e per tutto uno spaccato di vita vissuta. Per quanto la personalità delle protagoniste a tratti ti faccia innervosire, e non poco, alla fine ti ci affezioni come faresti con due figlie, o due sorelle, “difficili”. Questa narrazione ci mostra l’universo della sofferenza giovanile inespressa, che spesso crea dei mostri che paralizzano e bloccano la capacità di comunicare in maniera sana e di stringere unioni spontanee. A volte l’unica vera cura per un certo tipo di malessere è perdersi nel dolore di qualcun’altro.
Tre stelle e mezzo su cinque.