Il 21 febbraio del 2001 la 16enne Erika De Nardo uccise, insieme all’allora fidanzato 17enne Mauro Favaro, detto “Omar”, la madre Susanna Cassini e il fratellino Gianluca in quello che la stampa avrebbe rinominato “delitto di Novi Ligure”. Il movente era che volevano vivere in una dimensione di assoluta libertà: avrebbero voluto uccidere, infatti, anche il padre della ragazza.
Nei giorni scorsi, in una villetta di Paderno Dugnano, nel Milanese, si è consumata una strage che a molti ha riportato alla mente la loro: un 17enne, R.C., ha ucciso la madre, il padre e il fratello di 12 anni per poi dare l’allarme e confessare. “Neanche lui riesce a darsi una spiegazione”, ha fatto sapere ieri, 2 settembre 2024, la pm che si sta occupando del caso. Partendo da ciò che l’adolescente ha rivelato nel corso dell’interrogatorio, abbiamo parlato delle ragioni che potrebbero averlo spinto ad agire con la psicoterapeuta Alexia Di Filippo.
Perché i figli uccidono i genitori? Parola alla psicoterapeuta Alexia Di Filippo
La strage di Paderno Dugnano
D: Dott.ssa, il caso di Paderno Dugnano ha sconvolto tutti, riportando alla mente altre storie simili, come quella di Novi Ligure. In tanti si chiedono: come possono i figli arrivare ad uccidere i genitori? E perché spesso sono adolescenti?
R: “Tale eventualità, che appare inaudita, può verificarsi come evento apicale di una relazione perturbata, a partire dal legame di attaccamento che si struttura fin dalla nascita con le figure di accudimento primario. Questa problematica, anche se con esiti non sempre drammatici, si riscontra sempre più spesso in una società narcisistica dell’immagine, omologante, falsa e sostanzialmente violenta come quella in cui viviamo.
Un contesto in cui si dà molta importanza ad una narrazione rassicurante e ‘social’ di un nucleo fortemente in difficoltà, quale è la famiglia, in cui gli adulti sono sempre più disponibili a dare ai figli, ma in senso materiale, e ad adoperarsi affinché raggiungano standard performativi estremamente competitivi, tendendo però a fallire nella sintonizzazione empatica con loro.
Ciò comporta, da parte di questi ultimi, il non sentirsi visti e riconosciuti per chi realmente sono, quanto piuttosto indotti ad uniformarsi ad un modello ideale, adattato al contesto, che hanno in mente i genitori. Lo stile educativo adottato in queste famiglie è tipicamente iper protettivo, per cui i ragazzi fin da piccoli sono esonerati dall’affrontare qualsivoglia difficoltà e difesi ad oltranza da qualunque critica o rimprovero ricevano dall’ambiente esterno, per cui divengono pretenziosi ed intolleranti alla frustrazione.
Concomitantemente però si osserva una carenza di intimità relazionale e di un linguaggio emotivo che sono fondamentali per rappresentare a se stessi e comunicare agli altri i propri stati d’animo, i turbamenti e le difficoltà. La situazione è tale da favorire il fermentare di un disagio che i figli non riescono a mentalizzare e per cui non trovano parole.
Così, durante l’adolescenza, momento in cui si dovrebbe compiere il processo di separazione-individuazione che coinvolge anche gli adulti, il malessere a lungo covato può esplodere in un agito, come se l’unico modo per ribellarsi ad un genitore (o all’intero nucleo familiare), percepito come una presenza schiacciante, fosse quello di sopprimerlo”.
I possibili segnali di disagio ignorati
D: Effettivamente Il 17enne fermato avrebbe confessato di aver agito perché si sentiva “oppresso”, “non compreso”. Avrebbe parlato di “un disagio” di cui voleva liberarsi. Chi lo conosce lo descrive, però, come un ragazzo “tranquillo, normalissimo”, che non aveva problemi. Uno da cui non ci si sarebbe mai aspettati un gesto simile. È possibile che ci siano stati dei segnali premonitori e che siano stati ignorati?
R: “Trovo molto improbabile che il ragazzo non abbia dato alcun segnale del disagio che lo stava assediando; è più facile che in famiglia la sua inquietudine non sia stata letta correttamente o sia stata sottovalutata.
Il fatto che all’esterno tutti abbiano descritto l’adolescente come qualcuno da cui non ci si sarebbe aspettato un atto simile, è perfettamente spiegabile in termini di adeguatezza esteriore agli standard di una società che bada sostanzialmente all’apparenza e resta pervicacemente sulla superficie di ciò che una persona esprime, al di sotto della quale possono sedimentare tormenti, timori, disagi inconfessati che, nei rari casi in cui vengono colti, sono banalizzati sia tra i ragazzi che dagli adulti”.
Cosa si può fare
D: C’è qualcosa che i genitori, la scuola, le istituzioni possono fare per prevenire il ripetersi di vicende simili?
R: “I genitori andrebbero aiutati ancor prima della nascita dei figli, offrendo loro corsi volti al potenziamento delle capacità genitoriali e alla prevenzione della trasmissione intergenerazionale di stili di attaccamento perturbati.
La scuola, inoltre, potrebbe rivestire un ruolo cruciale se prevedesse in organico la figura dello psicologo, il quale sarebbe in grado di elaborare ed attuare programmi di promozione del benessere e prevenzione del disagio psichico e sociale, nonché di intercettare precocemente problematiche individuali e familiari degli allievi. Andrebbe inoltre ampliata la rete di assistenza psicologica pubblica che risulta fortemente carente.
Purtroppo da diversi anni nei media, lanciando l’allarme sul crescente disagio psicologico di bambini e ragazzi, mi trovo a formulare, insieme ad altri colleghi, proposte migliorative che sostanzialmente vengono lasciate cadere nel vuoto. Tale evidenza risulta essere parte del problema, o meglio lo specchio di una società votata al culto dell’apparire che dà poca importanza alla salute mentale, con i risultati che purtroppo constatiamo”.