Uscito nelle sale italiane lo scorso 22 agosto, “L’Innocenza” è il nuovo film drammatico del regista giapponese Hirokazu Kore’eda. Nel cuore di una città giapponese due bambini stringono un legame viscerale, imparando a misurarsi con le proprie emozioni. La colonna sonora di questo capolavoro è stata scritta da Ryūichi Sakamoto, l’acclamato compositore giapponese tristemente morto lo scorso 28 marzo 2023 a causa di un tumore al colon che, ormai, lo affliggeva da tempo.

“L’Innocenza”, recensione

In una città giapponese attraversata da un grande lago c’è un palazzo in fiamme. Brucia, velocemente, avvolto da lingue di fuoco alte come cattedrali; esattamente come il cuore di Mugino Minato (Soya Kurokawa) che, soffocato da pensieri inconfessabili, scotta mentre arde attanagliato da un divampante incendio. Mugino è un bambino solitario e taciturno che vive con la madre Saori (Sakura Andō) in un appartamento poco distante da quel grattacielo, che rapidamente si sta sgretolando. Ha più o meno undici anni ed è orfano di padre da quando era piccolo, quest’ultimo morto in un incidente stradale mentre era alla guida di un’automobile accompagnato da un’altra donna. È così bello Mugino: ha il viso delineato da una folta chioma liscia di capelli castani, due brillanti occhi a mandorla marrone scuro che sembrano quasi più grandi della faccia, il nasino a patata e la bocca incorniciata da due perfette labbra carnose di un rosa confetto. Ha un piccolo neo sulla guancia sinistra, proprio all’altezza delle narici. Con l’aria imbronciata e lo sguardo triste si sforza maledettamente di sembrare allegro dinnanzi alla madre, ma qualunque tentativo risulta vano perché a ogni emozione pungente le lacrime scendono giù a rigargli il volto. La sua coscienza è tormentata da paure troppo grandi per un’esistenza così breve. Eppure a scuola ha ritrovato in qualcuno la voglia di vivere.

Si chiama Eri (Yota Hiiragi) ed è un bimbo minuto, più basso dei suoi coetanei. I suoi compagni di classe lo chiamano mostro, ma quel bambino così ingenuo e sempre allegro non è affatto mostruoso. Ha un visetto carino e dolce come quello di un cartone animato. E proprio come il personaggio di una fiaba non sarebbe capace di ferire nessuno. Non è neppure in grado di capire quando sono gli altri a ferire lui. Per ogni angheria che subisce, ha sempre un sorriso pronto. A ogni risata di scherno, a ogni spintone, a ogni dispetto, si scusa come se fosse sua la colpa. Ma non ne è addolarato: è come se proprio non fosse in grado di vedere chiaramente il male che gli altri gli fanno. La madre lo ha abbandonato anni orsono e vive col padre violento che lo picchia e che spesso gli dice che è talmente stupido da avere il cervello di un maiale. È scansato da tutti, ma in Mugino trova inaspettatamente un amico fedele.

Ciò nonostante il nuovo insegnate, il maestro Hori (Eita Nagayama), per qualche ragione si è convinto che Mugino bullizzi Eri come fanno gli altri compagni. Ne è certo al punto tale da prenderlo di mira, costringendo la mamma Saori a recarsi dalla preside dell’istituto per denunciare il fatto. Ma più i giorni passano, più Eri e Mugino diventano inseparabili. E più il dolore si fa forte, più il loro legame diventa l’unico sollievo. Quasi ogni pomeriggio si vanno a nascondere in un vecchio vagone di un tram abbandonato in mezzo alla foresta. L’hanno adornato con una fila di lucine tonde per illuminarlo, hanno ricoperto i vetri con degli adesivi a forma di animali, hanno appeso alle pareti dei piccoli modelli dei pianeti del sistema solare. In quella manciata scarsa di metri quadri si sono creati un universo che appartenga soltanto a loro, dove custodire con cura quel rapporto assicurandosi di farlo crescere rigoglioso e sano come una pianta da giardino. Tra quelle mura di vetro e metallo insieme mangiano, giocano, si raccontano, imparano a conoscersi misurandosi con loro stessi. E allora perché il maestro Hori è così convinto che Mugino faccia del male a Eri?

“L’Innocenza”, critica

Che cos’è la verità? È questo quel che sembra chiedersi il regista giapponese Hirokazu Kore’eda nel suo nuovo film chiamato “L’Innocenza”, uscito lo scorso 22 agosto nelle sale italiane. L’oggettività di un fatto è davvero così universalmente oggettiva? Può la percezione soggettiva che abbiamo della realtà che ci circonda essere di per sé una prova inequivocabile? Questo sottile dramma commovente tenta, senza alcuna supponenza, di sviscerare il concetto di colpevolezza e di certezza misurandoli col pregiudizio e col sospetto che spesso obnubila, senza che ce ne rendiamo conto, il giudizio di ciascuno di noi. L’universo cinematografico di Kore’eda punta sempre non a farti la morale, quanto a risucchiarti nello sviluppo temporale di una vicenda. Minuto dopo minuto ti ritrovi rapidamente coinvolto in una storia, vivendola in prima persona, senza sapere dove ti sta portando. Esattamente come la vita di tutti i giorni, dove non c’è concesso sapere quale sarà il nostro futuro o di vedere da lontano il quadro d’insieme. Ed è proprio questo il cuore dello stile narrativo di un grandissimo regista che riesce perfettamente, ogni volta, a raccontare i nostri tempi senza un briciolo di retorica. Lui le vicende te le fa vivere, che tu sia pronto o meno. Ti schiaffeggia col suo realismo crudo, ma allo stesso tempo ti culla e ti coccola con una dolce malinconia che ti strazia l’anima.

E anche in questo film riesce perfettamente nel compito: “L’Innocenza” è un triste capolavoro moderno che affronta il tema del lutto, della depressione preadolescenziale raramente raccontata, dei dubbi sulla propria sessualità e dell’accettazione del proprio orientamento sessuale. Ma ci parla anche delle difficoltà estenuanti di una madre single, di una donna vedova rimasta sola senza alcun tipo di aiuto dinnanzi al mutare tragico e repentino dei comportamenti del proprio figlio. Infine ci fa riflettere su quanto i nostri preconcetti, spesso, ci inducano ad accusare gli altri senza avere poi la riprova inconfutabile di ciò che stiamo affermando. Senza se e senza ma questa è una pellicola di rara bellezza alla quale assegno quattro stelle e mezzo su cinque esclusivamente per il finale aperto alla francese che non lascia certezze, ma soltanto un doloroso sospetto, del quale non sono mai stata una grande estimatrice.