Il prossimo 28 agosto nelle sale italiane uscirà “Il Corvo”, reboot di un film cult degli anni ’90 che a suo tempo ha riunito un’intera generazione di adolescenti amanti del romanticismo gotico e della musica Grunge e Punk. Basato sul fumetto “The Crow” del fumettista James O’Barr, questo lungometraggio diretto dal regista Rupert Sanders è un flop in tutto e per tutto. Per tanto, ne sconsiglio la visione.

“Il Corvo”, recensione

In un istituto correzionale Eric e Shelly si incontrano e istantaneamente si innamorano l’uno dell’altra. Scappando da quella prigione riabilitativa inizieranno rapidamente a condividere una quotidianità romantica, sviluppando una necessità viscerale di fondersi l’uno nell’universo interiore dell’altro. Entrambi, con una storia alle spalle di abusi e tossicodipendenza, troveranno nell’amore una sorta di espiazione per le loro anime dannate come battezzati dalla possibilità di una redenzione spirituale. Ma una sera verranno brutalmente ammazzati da un gruppo di criminali che da tempo andavano a caccia di Shelly per ucciderla. Sprofondati in una specie di purgatorio, Eric avrà l’occasione di tornare nel regno dei vivi per vendicare la morte della sua compagna, sterminando chi ha massacrato entrambi dando così l’occasione a Shelly di resuscitare.

“Il Corvo”, critica

Terzo film alla regia per Rupert Sanders che, dopo “Biancaneve e il Cacciatore” e “Ghost in the Shell”, ha diretto questo reboot omonimo del grande film cult del 1994 “Il Corvo”. La sceneggiatura, creata a quattro mani da Zach Baylin e Will Schneider, riscrive da capo un classico del fumetto come “The Crow” del 1989 firmato dal fumettista James O’Barr. La storia di quest’ultimo è tristemente nota a molti: orfano dalla nascita, sentendosi abbandonato a se stesso durante l’adolescenza in un universo di emozioni miste tra disperazione, rifiuto e sconforto, si perde nella depressione più buia dopo la morte della sua fidanzata Beverly, causata da un incidente stradale per colpa di un automobilista ubriaco. Finito tra le braccia della droga e successivamente arruolatosi volontariamente nei Marines, decise poi di trovare sfogo per il suo tormento interiore dando vita a “Il Corvo”, fumetto cupo e tragico che parlava di romanticismo tormentato, del dramma del lutto improvviso e di vendetta, ispirato dalla musica del gruppo musicale The Cure.

Le pagine del fumetto narravano le vicende di Eric Draven, frontman di una band Rock, ucciso la notte di Halloween da un gruppo di motociclisti insieme alla sua amata Shelly Webster, che in quell’occasione fu anche violentata. Resuscitato da un corvo, Draven fa ritorno dal mondo dei morti per vendicare l’uccisione di Shelly sterminando i suoi aguzzini. O’Barr decise inoltre di disegnare il volto del protagonista truccato come la maschera di Pierrot, personaggio della tradizione teatrale francese nato in Italia nel 1673 circa, che incarna malinconia e tristezza. Il Corvo diviene così al tempo stesso un eroe e un antieroe, che uccide senza remore in preda alla sua rabbia cieca. Da questo, agli inizi degli anni ’90, nacque l’idea visionaria di farne un film, con Brandon Lee, primogenito di Bruce Lee, a interpretarne il ruolo principale. Diretto dal regista Alex Proyas, pur non essendo un capolavoro vero proprio e avendo a disposizione un budget contenuto, nonostante i suoi limiti divenne un vero cult per un’intera generazione. Quel film ha rappresentato il dolore adolescenziale in un’epoca di rivoluzione esistenziale.

Se per le generazioni precedenti parlare di malessere, depressione, sofferenza dell’anima veniva ritenuta un’inutile frivolezza, i ragazzi cresciuti nei ’90 cominciavano a rivendicarne il diritto, a volte anche eccedendo un po’ nel rendere poesia a tutti i costi i drammi giovanili. Ma è proprio così che, soprattutto negli Stati Uniti, i cosiddetti “emarginati” riuscivano finalmente a trovarsi in un’identità collettiva riunendosi fra loro, scoprendo delle similitudini spirituali. Questo scatenò non pochi atti di bullismo da parte dei coetanei appartenenti a quella fazione di bellissimi, esteticamente quasi perfetti, viziati ragazzi provenienti dalle famiglie più abbienti. E dunque “Il Corvo” servì anche a questo: a dare un senso di rivalsa e di appartenenza a tutti quegl’incompresi che non rientravano nel concetto di “normalità” imposto dalla società di quel tempo. Ma anche a dare modo di elaborare un tema, così delicato da comprendere a quell’età ancora troppo acerba, come quello del lutto improvviso e causato da una qualche forma di ingiustizia disumana. Ha riunito, rendendolo un prodotto indimenticabile, gli estimatori del Grunge e del Punk con una colonna sonora che incarnava perfettamente l’animo gotico di migliaia di adolescenti ignorati e affettivamente trascurati. Se a questo aggiungiamo la morte prematura di Brandon Lee sul set, causata da un colpo di pistola di scena, e il suicidio di Kurt Cobain, cantante dei Nirvana, un mese prima dell’uscita di questo lungometraggio, è chiaro che ne ricaveremo la formula perfetta per un’aurea di fascino e mistero che aleggia intorno a un fenomeno cinematografico rimasto nella storia contemporanea.

E dunque era proprio necessario riscrivere un classico in chiave moderna? A giudicare dai pessimi risultati, che personalmente ho trovato addirittura imbarazzanti e grotteschi, direi decisamente di no. In teoria questa pellicola avrebbe dovuto incarnare la gioventù odierna, stravolgendo una narrazione che appartiene a un’epoca ormai troppo diversa sotto tanti aspetti. Ma nella realtà l’ho trovato un progetto vuoto, fine a se stesso, senza capo né coda, che non si orienta in nessuna direzione e che risulta francamente ridicolo. Recitato male e diretto anche peggio, ruota tutto intorno all’estetica dei personaggi bellocci e scontati, tra tatuaggi sparsi qui e là. Non c’è spessore, non c’è un vero e proprio soggetto; è un’accozzaglia di scene piene di cliché e di violenza buttata lì a caso.

Non parla neanche lontanamente del senso di smarrimento che vive la gioventù di oggi che la porta a una totale mancanza di obiettivi, di idealizzazione del futuro, di aspirazioni lavorative e di carriera, spinta verso la necessità di fare soldi facili per sopravvivere in un sistema capitalista che sta schiacciando tutti noi, ma maggiormente le menti più giovani private di qualunque sogno, costrette a vivere alla giornata a causa di una mancanza abissale di ideali e di insegnamento di cosa siano l’etica e la morale. Questo film non è soltanto brutto, non si limita esclusivamente a non lasciarti nulla, ma per quel che mi riguarda è anche una mancanza di rispetto nei confronti del dolore straziante di O’Barr che fece del suo fumetto una realtà immaginaria dove la sua abnorme, abissale, sofferenza nichilista trovava una qualche forma di espiazione sfogando un’ira nera e opprimente nei confronti dell’esistenza umana e della sadica imprevedibilità della vita. Davvero un pessimo lavoro di cui, onestamente, ci potevamo benissimo privare. Una stella su cinque, a voler essere gentili.