In molti lo conoscono come il “mostro di Terrazzo”, dal nome del suo paese d’origine, oppure il “Landru della Bassa”, perché, come il famoso serial killer francese, attirava le sue vittime per poi seviziarle ed ucciderle. Gianfranco Stevanin fu attivo per circa due anni, tra il 1993 e il 1994 e prese di mira, perlopiù, prostitute: ecco la sua storia criminale.

La storia del serial killer italiano Gianfranco Stevanin

L’arresto, il 16 novembre 1994

Tutto inizia il 16 novembre del 1994, quando, all’altezza del casello autostradale di Vicenza Ovest, una donna si lancia al volo da un’auto, chiedendo aiuto a una volante della polizia di passaggio. Si chiama Gabriele Musger, fa la prostituta.

Agli agenti racconta che qualche ora prima, mentre era in attesa di clienti, un uomo l’ha avvicinata chiedendole di poterle scattare delle fotografie salvo poi accompagnarla a casa sua e costringerla a giochi erotici e rapporti violenti, minacciandola con una pistola e con un taglierino.

Quell’uomo era Gianfranco Stevanin. Qualche ora dopo sarebbe stato arrestato nella sua casa di via Torrano 41, a Terrazzo. Gli agenti lo avrebbero trovato in possesso non solo di materiale pornografico, di libri di anatomia e immagini religiose, ma anche di una scatola contenente peli pubici, uno schedario con le informazioni di decine di donne, più di settemila fotografie e i documenti di Biljana Pavlovic e Claudia Pulejo.

La prima risultava scomparsa dall’agosto precedente; la seconda da gennaio. Nessuno le aveva più viste in giro. Nessuno poteva immaginare che terribile fine avessero fatto. Stevanin quella stessa sera viene ammanettato e portato in caserma: al termine del processo a suo carico sarebbe stato condannato a tre anni per violenza sessuale, sequestro di persona e tentata estorsione. Nessuno sapeva, ancora, dei suoi altri reati.

La scoperta degli omicidi

Le cose cambiano il 3 luglio del 1995, quando un agricoltore, in un fosso non troppo lontano dalla sua abitazione, trova un sacco contenente i resti di un cadavere. Stevanin, a quel punto, viene iscritto nel registro degli indagati per omicidio volontario e occultamento di cadavere e viene trasferito nel carcere di massima sicurezza di Montorio Veronese.

Si tratta solo del primo dei tanti ritrovamenti che, in pochi mesi, avvengono nella stessa zona. Il 12 novembre del 1995, nel corso di alcuni scavi, il cadavere di una ragazza viene rinvenuto nel terreno a circa 80 metri di profondità, avvolto in un telo; il primo dicembre ne viene trovato un altro.

Sono i corpi di Pavlovic e Pulejo. Nei mesi che seguono, Stevanin viene accusato anche della morte di altre tre donne. Nega tutto. Sostenendo però di ricordare di essersi sbarazzato dei loro corpi. “È come se fosse il ricordo di un sogno, può essere una cosa che ho vissuto realmente ma che ho cancellato”, dice.

Nel 1996, a un certo punto, accenna a quattro ragazze che “gli sono morte tra le braccia”, tre durante rapporti sessuali, una per overdose da eroina. Di una studentessa di Verona racconta, invece, di aver sezionato il cadavere. “Il ricordo più forte che ho è del sangue”, spiega.

Il processo, la condanna, la vita in carcere

Al termine di una perizia psichiatrica, gli esperti lo giudicano processabile e Stevanin viene rinviato a giudizio per diversi omicidi. Il 6 ottobre del 1997 si apre il processo a suo carico. L’8 gennaio dell’anno successivo arriva la sentenza.

La Corte d’Assise gli infligge il massimo della pena. In Appello, invece, Stevanin viene riconosciuto “incapace di intendere e di volere” e assolto dalle accuse di omicidio. Restano in piedi sono quelle di occultamento e vilipendio di cadavere, che gli costano 10 anni di carcere.

Per l’uomo è un sollievo che dura poco: la Cassazione, parlando di “illogica motivazione” della sentenza, annulla infatti il verdetto, disponendo un nuovo processo di secondo grado. Alla fine Stevanin viene condannato all’ergastolo.

Per tutto il tempo i suoi avvocati avevano provato a dimostrare che, al momento dei fatti, non fosse in sé, parlando di “disturbi” dovuti a un incidente in moto avuto all’età di 16 anni che, oltre a provocargli una cicatrice permanente al volto, quasi gli era costato la vita.

Oggi l’uomo è recluso nel carcere di Bollate. Studia informatica, fa il volontario in biblioteca ed è stato anche nominato “delegato in piano”: si occupa, in pratica, della mediazione tra detenuti. L’équipe medica che nel 2021 è stata chiamata a valutarne il percorso e i progressi è arrivata alla seguente conclusione: è ancora un soggetto pericoloso. Se dovesse uscire, potrebbe tornare a colpire.

Ne ha parlato Fabio Camillacci in una delle ultime puntate di “Crimini e criminologia”, in onda tutti i giorni dalle 19 alle 20 in radiovisione su Radio Cusano Campus e Cusano Italia Tv (canale 122 del digitale terrestre). Clicca qui per recuperarla.