Lo scorso 1 agosto è uscito nelle sale italiane “Paradox Effect”, firmato dal regista Scott Weintrob che presenta un lungometraggio thriller e d’azione, girato in Puglia con un cast internazionale. Ma nonostante la presenza del grande Harvey Keitel, l’intero film è un flop colossale. Mai titolo fu più azzeccato, perché questa pellicola è talmente scadente da risultare paradossale.

“Paradox Effect”, recensione

Fredda scende la notte tra le strade di una Bari deserta. Sotto un cielo nero nero e una manciata di stelle, un silenzio assordante avvolge la città stringendola, come a volerla quasi strangolare. Nel retrobottega di un fruttivendolo una bellissima donna straniera di nome Karina (Olga Kurylenko) lavora, taciturna, in quelle gelide ore notturne: taglia la frutta e la verdura a piccoli pezzi e la imbusta meticolosamente, lasciandola pronta da vendere al banco per il giorno successivo. Con le sue splendide mani dalle dita sottili, la pelle morbida e levigata, le unghie curate dalla punta affusolata, non sembra affatto abituata a fare quel tipo di mestiere; ha un viso incantevole, due occhi grandi dallo sguardo profondo, una bocca dalla forma sinuosa e un corpo praticamente perfetto. Come una moderna cenerentola, se ne sta lì in mezzo a casse piene di ortaggi freschi. Ma per quanto principesca possa apparire, Karina ha un passato da tossicodipendente.

Da undici mesi non tocca più una siringa, ma un tempo si faceva di eroina. Da quasi un anno lotta con forza, strenuamente, contro la sua debolezza per non cedere al richiamo irresistibile di una dose, calda e attraente come una pulsione sessuale. Ha una figlia ancora piccola, che vive con l’ex compagno all’estero, e tra qualche ora la raggiungerà atterrando all’aeroporti di Bari. Tutto fa presagire l’imminente arrivo di una splendida giornata, ma il telefono di Karina squilla improvvisamente: è la sua amica Renee (Talia Asseraf) che le chiede aiuto. Anche lei ex eroinomane, sta avendo una crisi e ha paura di non riuscire a resistere. Ha già contattato il suo spacciatore per chiedergli una dose. Così Karina corre verso la sua macchina per andare dall’amica, la raggiunge e riesce a scongiurare il peggio.

Ma mentre sta tornando al lavoro, assiste casualmente all’omicidio di un uomo. Il killer, impugnando una pistola col silenziatore, spara dritto alla vittima che cade in terra come un frutto troppo maturo. Karina corre, sale nuovamente sulla sua auto e inizia a scappare. Ma l’omicida, seguendola con la sua macchina, manderà entrambi fuori strada causando un brutto incidente. Incredibilmente vivi entrambi, lui salirà nell’automobile di lei rapendola. Scoprirà così che lui si chiama Covek (Oliver Trevena) ed è un agente dell’Interpol. Covek si trova sotto ricatto di un Boss criminale di nome Silvio (Harvey Keitel), al quale deve molti soldi. Avrà così inizio una lunghissima notte per entrambi, dove Covek minaccerà Karina costringendola ad aiutarlo a recuperare i soldi da consegnare a Silvio.

“Paradox Effect”, critica

Dalle prime scene di “Paradox Effect” ho immediatamente capito che sarebbe stata un’autentica catastrofe. Dopo una ripresa grandangolare di un meraviglioso paesaggio barese, passando attraverso le stanze di un’incantevole villa antica, fa il suo ingresso Harvey Keitel in completo gessato che, in un’improbabile versione pugliese di Pietro Savastano, mozza di netto le dita della mano destra a un ostaggio. Quest’ultimo accenna, senza neanche una lacrima, qualche piccolo lamento come se avesse una banale emicrania. Riuscite a immaginare il dolore lancinante nel perdere quattro falangi, tagliate brutalmente con un coltello? È una sofferenza talmente grande da provocare uno svenimento. E invece questo qui non piange, non urla, non scalpita. E non perché rappresenti il personaggio di un rude e indomabile maschio alpha, ma semplicemente per una scadente recitazione diretta ancora peggio dal regista Scott Weintrob.

E in questo caso non si può certo dire, ahimè, che un pessimo inizio possa comunque migliorare con lo scorrere dei minuti. Anzi, l’incipit è stato solo presagio della rovinosa valanga che di lì a poco si sarebbe abbattuta su questo lungometraggio. Recitazione, soggetto, riprese, fotografia: tutto da rifare al punto tale che mi sono balzate in mente le ipotesi più disparate che giustificassero l’impiego di danaro per produrre questa cosa non meglio identificata, che proprio non riesco a chiamare film. E ancor di più non mi capacito di come mai Harvey Keitel, grandissimo attore che ricordo con enorme ammirazione per la sua interpretazione nel film “Lezioni di Piano”, abbia accettato di prendere parte a questo scempio cinematografico che anziché un thriller sembra la messa in scena di una barzelletta. I suoi ottantacinque anni non spiegano comunque il perché abbia voluto macchiarsi la carriera prendendo parte a un progetto nato sbagliato in partenza.

In una Bari violenta come Compton, che fa già ridere così, saltano fuori poliziotti stranieri corrotti, pistole col silenziatore, spacciatori americani che stringono accordi sotto minaccia davanti a teglie di focaccia barese. A completare il tutto spunta dal nulla la voce fuori campo di uno speaker radiofonico che, mentre presenta un programma notturno alla maniera di Jodie Foster ne “Il Buio nell’Anima”, tra una frase fatta e l’altra e una concitazione forzata, fa una specie di cronaca di questa infinita nottata di paradossi. Una sorta di Fabio Caressa che racconta una partita minuto per minuto. Assistendo a questo film, tra una risata e l’altra, tutto ciò che ti resta è un unico grande mah. Quante stelle potrei mai assegnare a un lavoro simile? Una su cinque, giusto per le grasse risate che mi sono fatta. È stato letteralmente esilarante.