Uscito lo scorso 25 luglio nelle sale italiane, “Here After” è il nuovo film horror firmato dal regista Robert Salerno. Tra misticismo e religione, questa pellicola affronta il tema dell’aldilà e delle esperienze di premorte.

“Here After”, recensione

In una splendida Roma, che appare incantata come in una fiaba, vive Robin (Freya Hannan-Mills), una tranquilla ragazza figlia di genitori divorziati. Frequenta una scuola femminile cattolica gestita da suore, in un vecchio convento di una bellezza da mozzare il fiato, nella quale la mamma lavora come docente. Madre americana e padre di origini italiane, si sono separati quando lei aveva soltanto cinque anni. Il papà, Luca (Giovanni Cirfiera), si è risposato con una donna più giovane e ha avuto un altro figlio. La mamma, Claire (Connie Britton), composta e timorata di Dio, invece ha scelto di rimanere sola dedicando la sua intera esistenza alla figlia. Istruzione privata, genitori ricchi, una casa nel cuore del centro storico, immersa nel verde tra parchi rigogliosi e viali alberati: dal di fuori questo potrebbe sembrare lo scenario per una vita perfetta, senza alcuna preoccupazione.

Eppure i quindici anni di Robin sono tormentati da qualcosa che proprio non riesce a ricordare, afflitta sin da piccola da un mutismo cronico. Da bambina ha smesso di parlare e da allora le sue corde vocali non hanno prodotto più alcun suono, ma ha imparato presto ad utilizzare le sue dita come mezzo di espressione. Non soltanto per la capacità di scrivere, o di utilizzare il linguaggio dei segni, ma suonando il pianoforte con straordinaria maestria. È una promettente musicista di successo e quando si siede al piano sembra venir fuori tutto quel dolore che trascina con sé al quale non sa dare un senso, incapace di esprimerlo a parole. Ma non è solo la sofferenza a trasparire dal suo modo di eseguire i brani; quando suona riesce a mostrare i lati più vibranti e vivaci della sua personalità solitamente tenuta nascosta. Robin è una ragazza mite, tranquilla, timida, che non crea mai alcun problema, tenendosi a bada da sola come se dovesse scontare una condanna, come se dietro la sua esistenza ci fosse una responsabilità gravosa, una colpa, un peso opprimente, tentando continuamente di rendersi invisibile. Lunghi capelli ramati e sottili, lisci come seta, occhi grandi e tondi, di un verde caldo, con delle pagliuzze dorate color miele che le circondano le pupille, carnagione chiara come la carta degli spartiti che conosce a memoria: anche il suo aspetto sembra trasmettere, con calma, un senso di pace.

Ma un giorno, mentre sta tornando a casa in bicicletta sotto un brutto temporale, viene stroncata da un violento incidente. La fredda mano tutt’ossa della morte ha stretto la sua, trascinandola con sé nel buio. Piombata in un’oscurità cieca, verrà clinicamente dichiarata morta per venti minuti. Che siano le fiamme dell’inferno, o la gelida desolazione immersa nel silenzio assordante del purgatorio, o finanche la luce abbagliante del paradiso, mentre il suo cuore ha smesso di battere l’anima di Robin è finita da qualche parte uscendone profondamente cambiata. Sì, perché una volta ritornata in vita non sembrerà più essere la stessa. Ricominciando a parlare come se non avesse mai smesso, apparirà sempre più ossessionata dall’aldilà. Schiva, scostante, a tratti inquietante, quasi diabolica, come un’entità demoniaca parrà intimamente malvagia. Ma davvero Robin avrà riportato con sé dall’oltretomba qualcuno, o qualcosa, di sadicamente maligno? O sarà soltanto frutto di un’impressione folle della mamma Claire?

“Here After”, critica

“Here After” è il secondo film alla regia del regista, produttore e scrittore Robin Salerno, uscito nelle sale italiane lo scorso 25 luglio. Nel cast troviamo Connie Britton, che ha interpretato l’ormai storica Vivien Harmon nella prima stagione, Murder House, di American Horror Story, e la giovane Freya Hannan-Mills nei due ruoli principali di madre e figlia. Nonostante la trama non si contraddistingua per l’originalità del soggetto e dei temi trattati, nella sceneggiatura di Sarah Conradt c’erano degli spunti molto interessanti che potevano e dovevano essere sviluppati meglio. Ma purtroppo la regia di Salerno ha tanti, troppi, limiti che hanno reso questo lungometraggio una specie di recita parrocchiale.

A partire dalla recitazione nel complesso mediocre, per passare al pessimo doppiaggio estremamente scadente, al punto tale che sembra essere stato doppiato dalle voci di Airport Security, al budget chiaramente limitato, mi sono chiesta perché questa pellicola sia stata prodotta. L’ultima mezz’ora è talmente lenta e mal interpretata che risulta sinceramente snervante. Sembra uno di quei thriller per la tv mandati in onda su Rai due nei sabati sera estivi. Non c’è tensione, o suspence; francamente di horror ha soltanto la pessima regia.

L’unica nota positiva che ho molto apprezzato è stata la capacità di far apparire Roma di una bellezza romantica che non le appartiene più da un pezzo. Le riprese dall’alto delle zone vicine al Tevere la mostrano bella come non mai. La decadenza, le bottiglie vuote di birra gettate sul lungo fiume, il degrado di una città lasciata all’abbandono, il traffico asfissiante, i cassonetti stracolmi di immondizia, gli ambulanti e gli ubriachi che urinano sulle mura vecchie di Trastevere: tutto queste tristi realtà sembrano essere sparite, per lasciare il posto esclusivamente al meraviglioso fascino delle strade capitoline ricoperte di una vegetazione dal verde brillante. È stato bello illudermi per un’ora e mezza di vivere in una città così ben tenuta. Per il resto, uno virgola cinque stelle su cinque.