Chi è Letizia Ruggeri e perché si è tornati a parlarne? Che fine ha fatto dopo aver seguito le indagini sull’omicidio di Yara Gambirasio, trovata morta, all’età di 13 anni, nel 2011? A riaccendere i riflettori sul suo ruolo di pm è stata la serie da poco uscita su Netflix: ecco il motivo.

Chi è Letizia Ruggeri, la pm che seguì il caso Yara

Nata a Milano nel 1965, Letizia Ruggeri è nota ai più per la sua professione: da molti anni ricopre il ruolo di pubblico ministero. E si è occupata, tra gli altri, anche del caso Yara: seguì le indagini relative alla morte della 13enne di Brembate di Sopra, trovata senza vita, in un campo di Chignolo d’Isola, nel febbraio del 2011, fin dagli esordi, raccogliendo gli indizi che hanno portato in carcere – con una condanna all’ergastolo – l’ex muratore di Mapello Massimo Bossetti, che si è sempre proclamato innocente.

Perché è accusata di frode processuale e depistaggio?

A riaccendere i riflettori sul suo ruolo è stata la serie tv “Il caso Yara: oltre ogni ragionevole dubbio”, uscita da poco su Netflix e da molti definita “innocentista” perché particolarmente incentrata sul punto di vista dell’uomo condannato e della sua difesa, rappresentata dagli avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini.

Punto di vista molto critico sul lavoro della pm, che è accusata di aver compromesso la conservazione delle 54 provette contenenti le tracce biologiche rinvenute sui vestiti che Yara indossava al momento del ritrovamento: tracce biologiche attribuite dagli esperti prima a “Ignoto 1” e poi proprio a Bossetti.

Ruggeri, in particolare, ne avrebbe autorizzato lo spostamento dall’ospedale San Raffaele di Milano all’ufficio corpi di reato del tribunale di Bergamo, interrompendone – secondo Salvagni e Camporini – la catena del freddo. Il problema? Ad oggi le provette sarebbero inutilizzabili per nuovi esami.

Attesa per la decisione del gip

Le accuse mosse nei confronti della pm sono di frode processuale e depistaggio. La Procura di Venezia ha chiesto al gip Alberto Scaramauzza di archiviarle. La difesa di Bossetti ha però presentato opposizione. La decisione era attesa per lo scorso 24 luglio: il gip, dopo aver ascoltato le parti, si è riservato.

Se dovesse optare per la chiusura delle indagini, il caso potrebbe considerarsi chiuso. Viceversa, Salvagni e Camporini potrebbero sperare di veder accolta una nuova istanza di analisi dei reperti residui, gli indumenti di Yara conservatisi (e poi, forse, arrivare alla revisione del processo).

Le prove raccolte contro Bossetti

Quella del Dna non è, in realtà, l’unica prova raccolta dagli inquirenti contro Bossetti: l’uomo, oggi 53enne, fu incastrato anche dal fatto che il suo telefono cellulare agganciò una cella compatibile al luogo in cui la ragazzina fu avvistata per l’ultima volta, la sua palestra di Brembate, proprio il giorno in cui scomparve. Nella stessa data il suo furgone bianco fu visto aggirarsi in quella zona.

Come se non bastasse, sul suo computer, nel corso di alcune analisi, furono trovati dei video che ritraevano ragazze giovani, dell’età di Yara, impegnate in passi di danza. Di certo non un caso, secondo chi indagò all’epoca sulla morte della 13enne, scomparsa nel novembre del 2010 e trovata morta tre mesi più tardi.

L’autopsia ha stabilito che non fu violentata: chi la rapì però, probabilmente, voleva farlo. Preso dal panico, a un certo punto la colpì. Poi la abbandonò in campagna, al freddo, facendola morire di stenti.