Tre vite spezzate, due bambine che lottano tra la vita e la morte e altre dieci persone rimaste ferite in una sera d’estate in cui tutto è diventato polvere e rumore. La tragedia che si è consumata all’interno della Vela Celeste di Scampia ha riacceso i riflettori sulla storia di questo complesso di edilizia popolare di Napoli, progettato negli anni Sessanta e terminato negli anni Settanta.
Come le sette ‘vele’ di Scampia – di cui, ad oggi, ne rimangono solo tre- è stato realizzato anche il Corviale di Roma, nella periferia sud-ovest della Capitale. Strutture costruite con l’intento di creare spazi e servizi per far fronte all’emergenza abitativa dei cittadini, ma che hanno tradito promesse e aspettative. Perché è successo? Noi di TAG24 ne abbiamo parlato con l’urbanista e saggista Paolo Bardini.
Crollo a Scampia, l’urbanista Berdini: “Alle Vele un eccesso di presunzione ed errori progettuali”
“Questi progetti così grandi nascono perché in un periodo in cui c’è un’esigenza reale: la crescita impetuosa della popolazione che necessita di case” spiega l’urbanista Berdini. Le Vele di Scampia, nelle intenzioni dell’architetto Franz Di Salvo, prevedevano unità abitative più piccole, affiancate da spazi comuni di integrazione e condivisione.
“Visti con gli occhi di oggi- anche se io stesso li ho criticati anche quando ero giovane e studente- rappresentano un eccesso di presunzione ‘architettese’ di seguire un modello creato da un intellettuale, commettendo evidenti errori progettuali. Come si può pensare che un quartiere possa nascere sui ballatoi, come succede a Scampia, o su corridoi lunghi un chilometro, come a Corviale? Ma quando mai? La città vera è quella che sta a terra, che ha spazi verdi e di qualità”.
C’è poi anche un fattore ideologico che ha portato alla realizzazione di queste strutture. Tutto ha avuto origine, sottolinea Berdini, con la grande operazione Olivetti INA-Casa del dopoguerra, dieci o vent’anni prima.
“A quell’epoca c’è un’Italia che pensa di dover riscattare chi non ce la fa. Sono tutti quartieri che nascono nel periodo del Piano Fanfani, pensati a misura d’uomo” racconta.
“Dov’è poi che crolla tutto? Le case sono popolari, quindi realizzate con materiali economici: il deterioramento è più veloce e accentuato rispetto all’edilizia ‘normale’. I servizi promessi non vengono realizzati o non vengono poi tenuti in vita. Al degrado delle abitazioni si aggiunge quello degli spazi pubblici e il risultato è un disastro di dimensioni gigantesche. Perché si può anche accettare che la scuola sotto casa, se parliamo di piazza Fiume a Roma (nell’elegante quartiere Parioli, ndr) abbia i vetri rotti: ma siamo in uno dei posti più belli della Capitale. Invece al Corviale, a Scampia, allo Zen di Palermo, le scuole cadono a pezzi e in più sono nel posto più brutto della terra”.
La mancata manutenzione e l’abbandono
Scampia, Corviale: due esempi di quartieri nati con grandi idee, ma che poi non hanno ricevuto la giusta cura da parte dell’amministrazione pubblica.
“A Corviale c’è un centro sportivo che ha anche una scuola di calcio per bambini. Funziona soltanto grazie a una cooperativa. Se fosse rimasto in pancia al pubblico sarebbe andato in malora come gran parte dei servizi in periferia. Qui la sinergia con il privato ha funzionato” sottolinea l’urbanista.
C’è un’indagine in corso per il crollo del ballatoio nella Vela Celeste a Scampia, con varie ipotesi in campo per spiegare il disastro. Ma la scarsa manutenzione può avere avuto un ruolo?
“Tutte le grandi esperienze delle nazioni più progredite, dalla Francia alla Germania, sanno che per ogni quartiere pubblico è necessaria una posta di bilancio annuale che permetta di rendere vivibile queste zone” spiega Berdini.
“Se nella parte pubblica nessuno spende più nulla raccontando la storiella che non ci sono soldi, allora è evidente che aggiungiamo un altro danno sociale a chi ha già un danno sociale iniziale, cioè ha bisogno di una casa popolare”.
I progettisti dell’INA Casa, sottolinea Berdini, “facevano delle case: punto. Non come a Scampia. La dignità della vita nella periferia va rispettata. L’importante era dare un tetto a tutti, senza caricare di chissà quale significato ciò che si stava facendo. Al Corviale c’è questo questo passaggio, 900 metri di collegamento tra tutti i corpi scala che poi salgono per dieci piani. All’inizio era stato pensato come uno spazio unitario. Ma può funzionare uno spazio tra scale condominiali in cui possono andare anche i motorini? Allora, dopo diversi anni, i residenti hanno messo i cancelli. Non potevano sopportare persone che guidavano a 80 all’ora in mezzo ai pilastri. Poi sono arrivate le occupazioni ed è proliferato il degrado. Questo è stato l’errore che ha riguardato anche Scampia: progettisti che si sono sentiti arbitri della vita altrui. Le persone avevano bisogno di una casa: nient’altro”.