Il 12 ottobre del 2018 è stato condannato in via definitiva per l’omicidio di Yara Gambirasio, la 13enne originaria di Brembate di Sopra scomparsa il 26 novembre del 2010 e trovata morta il 26 febbraio del 2011 in un campo di Chignola d’Isola, sempre nella Bergamasca: ecco dove abitava e che lavoro faceva prima Massimo Bossetti.
Massimo Bossetti, dove abitava e che lavoro faceva prima della condanna per l’omicidio di Yara Gambirasio
Quando fu arrestato con l’accusa di omicidio, nel giugno del 2014, Bossetti aveva 43 anni e lavorava come operaio edile. Insieme alla moglie Marita Comi e ai tre figli viveva in una casa di via Piana di Sopra, a Mapello, in provincia di Bergamo.
Si proclamò subito innocente. Oggi, dopo 10 anni, continua a farlo, dicendosi vittima di un errore giudiziario. I familiari gli credono. “Poteva essere mia figlia”, ha detto, in passato, nel corso del processo a suo carico. Si riferiva, ovviamente, a Yara Gambirasio, la 13enne che – al di là di ogni ragionevole dubbio – secondo i giudici avrebbe ucciso nel novembre del 2010.
Quanti anni di carcere deve scontare il muratore di Mapello?
Nell’ottobre del 2018 è stato condannato in via definitiva all’ergastolo. Si trova nel carcere di Bollate, a Milano. Secondo Il Mattino lavorerebbe per una società che produce macchine da caffè industriali e parteciperebbe di frequente a corsi di cucina, recandosi anche in biblioteca.
Una vita diversa rispetto a quella che conduceva prima di finire nel mirino degli inquirenti. Accadde qualche mese dopo il ritrovamento del corpo della 13enne di Brembate, avvenuto nel febbraio del 2011, a tre mesi dalla sua scomparsa.
Dai suoi slip e da altri indumenti che indossava gli esperti del Ris avevano prelevato un campione di Dna che poi attribuirono a “Ignoto 1”. Le analisi che lo riguardarono portarono a Giuseppe Benedetto Guerinoni, deceduto nel 1999. Si pensava che fosse il padre dell’assassino di Yara.
Il resto è noto: attraverso una serie di accertamenti si riuscì a capire che l’uomo aveva avuto un figlio (illegittimo) da una certa Ester Arzuffi, la madre di Massimo Bossetti. Nel giugno del 2014, con la scusa di sottoporlo a un alcol test, i carabinieri verificarono che il suo Dna corrispondeva a quello di “Ignoto 1” e lo arrestarono.
Gli avvocati che lo difendono, Claudio Salvagni e Paolo Camporini, hanno da poco avuto accesso alla visione dei reperti da cui tale Dna fu prelevato (i campioni, conservati a temperatura ambiente, non sarebbero più utilizzabili) e hanno fatto sapere di voler arrivare a compiere nuovi esami per capire se in passato qualcosa andò storto. Dal canto loro, infatti, Bossetti sarebbe ingiustamente detenuto.
Le altre prove contro Massimo Bossetti
Contro di lui, però, non c’è la sola prova del Dna. Lo ha spiegato bene, in un articolo sul Corriere della Sera, la vicedirettrice Fiorenza Sarzanini, soffermandosi, in particolare, sulle celle agganciate dal suo telefono cellulare (compatibili alla zona in cui Yara scomparve), sull’avvistamento del suo furgone nello stesso luogo e sul falso alibi fornito agli inquirenti.
Prove che nella serie uscita da poco su Netflix si cerca di smontare. In tanti sui social e non l’hanno definita “innocentista”, ritenendo che – non mostrando il punto di vista della controparte, i familiari della vittima (che si sarebbero rifiutati di intervenire) – non sia completa. L’avvocato Salvagni, rispondendo all’Ansa, ha dichiarato invece che è “aderente ai fatti”. Così a noi di Tag24 aveva parlato degli ultimi sviluppi del caso: “I reperti appena visionati? Sono sufficienti per nuovi esami. L’obiettivo finale è la revisione del processo”.