L’attentato a Donald Trump e la detenzione di Ilaria Salis in Ungheria hanno scatenato le discussioni anche in casa nostra. “Girano troppe armi negli Stati Uniti” e “Non si può portare in aula una detenuta con le catene” è stato detto nei dibattiti in televisione e sui giornali, nelle case del popolo e in parrocchia. Qualche giorno fa un ottantenne frequentatore di un circolo Arci ha messo in riga i fustigatori dei costumi statunitensi e ungheresi: “Ma quello che abbiamo fatto nella storia recente d’Italia a proposito di armi ve lo siete dimenticato? E che in carcere dall’inizio di quest’anno si sono suicidati 56 giovani o forse più lo avete scordato?”. 

Le parole, i volantini, le mazze, le armi e i fomentatori di odio

Mi sono tornate in mente queste domande leggendo Pierluigi Battista su Huffington Post che scrive: “Forse dovremmo smetterla di impancarci a giudici dei comportamenti altrui. Con che faccia ci mettiamo a discettare delle nefandezze del sistema giudiziario ungherese mentre nelle nostre carceri disumanizzanti detenuti in attesa di giudizio su suicidano? E ora, dopo gli spari su Trump, la violenza politica in America, troppe armi, la tradizione dell’assassinio politico”.

E cita Francesco Merlo che nella sua rubrica delle lettere su “La Repubblica” ricorda il “mai più senza fucile” che risuonava lugubre nella follia ideologica cruenta degli anni Settanta, “molotov e spranghe, P38 e chiavi inglesi, una raffica al giorno a magistrati, giornalisti, poliziotti, sindacalisti, professori universitari, lotta armata, mitragliette e kalashnikov”, quasi quotidianamente, in un bollettino tragico senza fine.

E davanti alle scuole erano all’ordine del giorno gli scontri tra extraparlamentari di sinistra e di destra. Cominciavano con le parole e con i volantini pieni di odio per passare alla violenza delle mani, dei bastoni e talvolta delle armi. Qualcuno dei fomentatori di allora ha fatto carriera, altri si sono rovinati la vita.

Stefano Bisi