Ultimo appuntamento per la rubrica “Non solo trentatré” prima della pausa estiva. I nostri approfondimenti torneranno, con cadenza quindicinale, a partire da settembre. Oggi ci concentriamo su aspettativa di vita, sistema pensionistico e ruolo degli anziani nella società.
Aspettativa di vita
L’aspettativa di vita è una formula che sta ad indicare quanti sono gli anni di vita che una persona può ragionevolmente aspettarsi di vivere a partire dalla nascita. Ma questa formula non indica un granché se non definiamo ulteriori ed essenziali punti di riferimento. In altri termini, dobbiamo indicare il sesso della/e persone di cui parliamo, il periodo storico e il contesto geografico in cui vive ed un’altra serie di fattori, ad esempio lo stile di vita della persona: dall’alimentazione all’esercizio fisico, dall’attività intellettuale, all’uso di sostanze varie, come le droghe, le medicine e l’alcool. Nel calcolo dell’aspettativa di vita, interagiscono fattori diversi, legati alle scelte ed alle abitudini individuali, determinati dalla società in cui gli individui si trovano, ma pure dal livello generale della ricerca in campo medico e scientifico.
Non è semplice, pertanto, definire l’aspettativa di vita, anche perché quando parliamo di vita, si dovrebbero considerare non solo la sua durata, ma anche la qualità della stessa. Dire ad esempio che l’aspettativa di vita di un uomo oggi in Italia supera gli 80 anni non indica di per sé la qualità della stessa, che dipende da fattori diversi, assai simili a quelli su ricordati. La qualità della vita, soprattutto nella sua fase discendente, è condizionata dagli stili di vita adottati nel presente e nel corso dell’esistenza passata, dalla possibilità/capacità di accedere alla prevenzione ed a cure mediche tempestive ed efficaci.
Parlare oggi di aspettativa di vita in Italia, significa sostenere che a livello statistico un uomo può ragionevolmente ambire a vivere oltre gli 80 anni, mentre una donna fino a 85 anni. La realtà spesso è diversa, basta fare un giro nei viali di un cimitero, pratica che non di rado adotto, per avere una prima, estemporanea idea di come si possa morire in tutte le età e per i motivi più diversi. Senza considerare che i limiti dell’aspettativa di vita possono radicalmente precipitare in basso in epoche devastate da guerre, epidemie, cataclismi , carestie, ecc., eventi ricorrenti nel corso della storia umana.
L’aspettativa di vita, cioè la fondata speranza di vivere un certo numero di anni ha avuto sviluppi positivi negli ultimi decenni perché tutti i fattori che la determinano hanno avuto sviluppi positivi: è aumentata la qualità della vita, la crescita intellettuale delle persone, il reddito medio, la prevenzione in campo medico, lo sviluppo della ricerca e la qualità delle cure sanitarie. Questi principali fattori, assieme ad altri come il diffuso accesso ad una informazione capace di orientare le scelte individuali, contribuiscono ad accrescere l’aspettativa di vita, anche se vivere più a lungo non significa anche vivere bene e in salute l’ultimo periodo della propria vita.
Sistema pensionistico e ruolo degli anziani nella società
La crescita della durata media della vita è un fenomeno che sarà confermato nei prossimi anni, soprattutto nel mondo definito “Occidente”, cioè nei paesi più sviluppati, caratterizzati prevalentemente da un modello politico liberal-democratico. Almeno se l’Occidente sarà capace di disinnescare processi autolesionistici come le guerre, che portano alla crescita della possibilità di morte, per individui e popoli.
Dal punto di vista sociale, in Italia e in tutte la nazioni più avanzate, questo fenomeno ha creato e creerà almeno due problematiche importanti: una nazione con una elevata popolazione di ultrasessantenni, che costituirà una percentuale di anno in anno crescente rispetto al resto della popolazione, dovrà garantire una adeguata assistenza sanitaria ed essere capace di erogare pensioni da lavoro e di altro tipo.
Questa non è una situazione nuova. L’elemento di novità è dato dal fatto che il sistema sociale e pensionistico sono stati pensati in un tempo e per una società che oggi sono cambiati. Cosa assai diversa la vicenda di un lavoratore che dopo 35 anni di lavoro e contributi previdenziali va in pensione a 65 anni con un’aspettativa di vita di altri dieci anni o quella dello stesso lavoratore che va in pensione a 65 anni, ma che ragionevolmente vivrà non 10, ma altri 15 o forse più anni. Appare evidente che i conti non tornano. Le soluzioni alternative appaiono quasi obbligate. Un primo dato è evidente: non è possibile garantire lo stesso trattamento pensionistico a chi usufruirà per 10 o per 20 anni della pensione, avendo a disposizione la stessa cifra, raccolta negli anni di lavoro in forma di contributi previdenziali.
Le soluzioni appaiono scontate. Una potrebbe essere quella di aumentare il prelievo sugli stipendi e sui redditi ai fini pensionistici. Soluzione assai impopolare, in considerazione del fatto che il livello della tassazione in Italia è già assai alto. Un’altra soluzione potrebbe essere quella di aumentare il numero degli anni di lavoro, quindi dei contributi, in modo da ridurre il periodo in cui godere della pensione. Queste due misure potrebbero combinarsi: è quanto accade, ad esempio, nei casi di persone che per loro conto si costituiscono negli anni, con contributi periodici, una pensione integrativa di cui godere quando sarà il momento.
La crescita dell’aspettativa di vita, combinata pure con la riduzione in percentuale ed in cifre assolute delle nuove nascite, porterà all’acuirsi di una tendenza già diffusa: la crescita in percentuale ed in numeri complessivi della popolazione anziana e quindi alla riduzione del numero della popolazione attiva dal punto di vista lavorativo.
Non si tratta solo di aumentare gli anni di lavoro delle persone, con relativo incremento dei fondi ai fini pensionistici, ma pure ridefinire la nozione di anzianità e vecchiaia per uscire dalla obsoleta idea che l’anziano, il pensionato, debba essere considerato al di fuori dei circuiti produttivi/creativi, idea poco fondata soprattutto in quegli ambiti dove si richiedono competenze intellettuali combinate ad esperienze lavorative di ampio spettro.
Se consideriamo, ad esempio, la classe dirigente degli stati che determinano la politica mondiale, di nazioni come gli USA, la Cina, la Federazione Russa, l’India, l’UE, il Vaticano, ecc. , vediamo che l’età dei vari leaders è tale che in base ai loro sistemi pensionistici nazionali, come semplici lavoratori, avrebbero raggiunto da anni i requisiti per godere della pensione, cioè per “essere messi a riposo”. Ma lo stesso si può dire di intere categorie di lavoratori, che difficilmente “vanno in pensione” secondo la normativa nazionale. Mi riferisco a categorie come gli artisti, le persone del mondo dello spettacolo, i liberi professionisti, i giornalisti, gli scrittori, i religiosi e via dicendo.
La sfida che si dovrà sostenere nei prossimi anni, pertanto, non sarà solo di razionalizzare il sistema pensionistico, tenendo in debito conto il rapporto fra tempi di lavoro e crescita dell’aspettativa di vita, ma di utilizzare l’enorme patrimonio di competenze e professionalità che gran parte degli anziani, dei pensionati, non solo vorrebbe ancora dare, ma sarebbe pure in grado di dare, viste le migliori condizioni generali in cui oggi si trova parte considerevole di questa fascia della popolazione. Si tratta di promuovere un diverso approccio alla questione della anzianità ed al ruolo dell’anziano nella società, non più inteso come soggetto prevalentemente da accudire e curare, ma anche come persona con cui cooperare e da cui apprendere.
Enrico Ferri, professore di Filosofia del Diritto e di Storia dei Paesi Islamici all’Unicusano