Lo scorso 11 luglio nelle principali sale cinematografiche italiane è uscito “Non Riattaccare”, il secondo lungometraggio del regista Manfredi Lucibello. Anche in questo film, esattamente come nel primo, Lucibello sceglie una lunghissima notte per raccontarci una storia di espiazione e perdono, di sofferenza e disperazione, di una fuga necessaria all’anima per ritrovare se stessi. Barbara Ronchi e Claudio Santamaria interpretano le parti dei due protagonisti.

“Non Riattaccare”, recensione

Un silenzio soffocante si solleva nella notte, come quel vento che arriva rapido e improvviso un istante prima di un terremoto. L’oscurità densa e fitta, nera come il catrame, lascia che nelle strade deserte aleggi un’atmosfera cupa e desolante. È marzo e al principio di un’ennesima primavera che, come ogni anno, dovrebbe portare vita nuova con lo sbocciare rigoglioso di una natura dai colori vivaci, sembra invece che il mondo stia per finire. Milioni di anime impaurite se ne stanno silenti, nascoste nelle loro case in attesa di giudizio, come gli ebrei durante l’ultima piaga d’Egitto attendevano terrorizzati il volere di Dio, sperando che una croce sulla porta disegnata col sangue d’agnello potesse salvare i loro primogeniti dall’ira del Signore. È il 2020 e un’epidemia di polmonite si è abbattuta sulla popolazione mondiale, che senza pietà sta mietendo vittime tirandole a forza per trascinarle con sé in un inferno di dolore. Quasi tutto il mondo intero è in quarantena e l’unica salvezza per ciascun individuo da una morte impetuosa sembra essere l’allontanarsi gli uni dagli altri, privandosi della più alta forma di espressione umana: il contatto fra un corpo e un altro.

In questo asfissiante scenario apocalittico senza speranza, Irene (Barbara Ronchi) viene brutalmente destata di colpo da un sonno profondo; improvvisamente squilla il telefono. A chiamarla, inaspettatamente, è il suo ex compagno Pietro (Claudio Santamaria) che l’ha lasciata sette mesi prima, dopo un brutto incidente stradale. Ma quella non è una telefonata di riappacificazione per tornare insieme, non è nemmeno un tentativo di sfuggire alla noia o di ingannare la solitudine chiacchierando; Pietro vuole suicidarsi lanciandosi dal tetto della sua villa in riva al mare di Santa Marinella. La chiama per chiederle scusa, per trovare un po’ di riparo in un ultimo tentativo di espiazione dei suoi peccati, per cercare un briciolo di conforto nel calore del perdono. E forse, in realtà, nello straziante sconforto sta solo cercando, nelle parole di lei, una motivazione per non uccidersi.

Ma così facendo, Pietro, non si renderà conto dell’egoismo del suo gesto: dopo averla tradita, lasciata e distrutta, abbandonandola come smembrata in milioni di piccoli pezzi, la sveglia, in una notte che appartiene a un periodo già di per sé opprimente, guastandole il sonno per gettarle tra le braccia il peso enorme della responsabilità di essere determinante nella scelta che lui continui a vivere oppure no. Ma Irene non ci penserà due volte e di nascosto scapperà di casa, rubando l’auto del suo nuovo fidanzato, mettendosi alla guida per raggiungere Pietro. Inizierà così un viaggio interminabile e devastante, che durerà un’intera notte, e attraverso i chilometri di un’autostrada deserta, Irene e Pietro, viaggeranno lungo la via tortuosa e disseminata di spine delle loro singole anime e del loro perduto rapporto.

“Non Riattaccare”, critica

Secondo film alla regia per Manfredi Lucibello che, dopo la sua prima opera del 2018 intitolata “Tutte le mie notti”, con “Non Riattaccare” sceglie nuovamente la notte per affrontare il penetrante viaggio nella coscienza e nelle emozioni che affliggono con tormento lo spirito umano.
Riadattamento cinematografico dell’omonimo romanzo pubblicato nel 2005, questo lungometraggio si ispira liberamente alle parole della scrittrice Alessandra Montrucchio per raccontare una storia di angoscia e di disperazione, ma anche di amore e di egocentrismo, di attaccamento e di senso di colpa.

Questo spettacolo triste ci mostra una donna, Irene, interpretata da Barbara Ronchi, stanca e distrutta che ha tentato di sopravvivere al lutto dell’abbandono, andando avanti ricostruendo la sua esistenza, ma che ancora una volta si fa da parte cedendo all’istintivo richiamo umano di essere d’aiuto portando salvezza. Dall’altra troviamo Pietro, coprotagonista interpretato da Claudio Santamaria, che si arrende dinnanzi al suo dolore senza notare l’egoismo celato dietro il chiedere implicitamente di essere salvato proprio dalla persona che lui stesso ha distrutto e dell’egocentrismo insito nel porsi al centro di ogni questione, attribuendosi la colpa anche di cose che non gli competono. Analizzata così potrebbe sembrare la solita storia d’amore tossico dove un uomo supplica una donna di prendersi cura di lui, come fosse un bambino che cerca le attenzioni materne.

Però in realtà questo profondo dialogo dedito a rielaborare anche gli angoli più nascosti di una relazione (non così tanto) finita, ci mostra e ci parla di come le sfumature, le circostanze e i comportamenti umani facciano la differenza. In tantissimi rapporti non c’è una vittima e un carnefice, ma solo due persone che non sono state in grado di ascoltarsi. A volte stare al fianco di qualcuno diventa quasi un automatismo involontario ma necessario alla sopravvivenza e si finisce col non rendersi conto che in quel bisogno di non rimanere soli vigliaccamente, per paura, non si espongono i propri mutamenti interiori. Ma così facendo si arriva ad accorgersi che non ci si capisce più quando ormai è troppo tardi. I legami d’amore carnale non hanno mai dei confini ben definiti, spesso ci si perde nella complessità delle emozioni umane ferendosi a vicenda. Esclusa qualche piccola sbavatura di regia e qualche situazione al limite col poco plausibile, nel complesso l’ho trovato un buon film. Tre virgola cinque stelle su cinque.