Ilaria Salis e Chico Forti. Due italiani detenuti all’estero, saliti prepotentemente alla ribalta nelle ultime settimane, grazie anche all’interesse di esponenti politici. E poi ci sono Filippo Mosca, Luca Cammalleri, Giacomo Passeri, di cui si parla grazie alla denuncia dei loro familiari. Storie diverse tra loro, ma che condividono tutte le difficoltà di una prigionia in un Paese straniero.
Secondo l’ultima stima di aprile 2024, i cittadini italiani incarcerati all’estero sono oltre duemila: 2.168, per l’esattezza. Anche se il numero potrebbe essere più elevato.
Persone che spesso vedono negati i propri diritti e che si ritrovano a dover affrontare difficoltà di comunicazione, linguistiche, economiche nonché sanitarie. Eppure non tutte loro “fanno notizia”.
Capita che le famiglie vengano lasciate sole a brancolare nel buio, con la preoccupazione di dover far fronte a spese notevoli.
L’associazione Prigionieri del Silenzio, attiva dal 2008, ha l’obiettivo di offrire supporto, anche economico quando possibile, a chi ha un proprio caro in carcere in un paese straniero, come ci racconta Katia Anedda, che ne è co-fondatrice e presidente.
“Anch’io sono stata dalla parte di chi oggi mi chiede aiuto” sottolinea a TAG24. “Così ho cercato di trasformare il mio dolore in qualcosa di utile”.
Italiani detenuti all’estero, perché non tutti fanno notizia? Katia Anedda (presidente Prigionieri del silenzio): “Motivi diplomatici o familiari”
L’associazione ha un filo diretto con la DGIT, la Direzione Generale per gli italiani all’estero e le politiche migratorie. Il 4 luglio 2024 Anedda, insieme all’avvocato Francesca Carnicelli, è stata in audizione con la Commissione dei diritti umani al Senato.
“Il mio ex compagno era stato ingiustamente incarcerato in Germania e poi trasferito negli Stati Uniti. Ho iniziato quindi a contattare politici, giornalisti, chiunque potesse darmi una mano. Poi mi sono resa conto che non ero sola: insieme a un’altra ragazza che aveva un problema simile con il fratello, abbiamo fondato l’associazione. Voglio essere per gli altri ciò che io non ho trovato io all’epoca. Perché, oltre alla persona detenuta, anche i familiari soffrono davvero tanto”.
Ci sono nomi, però, che hanno risalto mediatico, com’è accaduto per Ilaria Salis o Chico Forti. Non tutti loro ottengono le luci della ribalta. Perché questo succede?
“Da una parte è la volontà dei familiari. Inoltre, nel caso in cui ci sia stato un minimo sbaglio, è difficile che faccia notizia. Se stupidamente è stato commesso un errore- come nel caso del possesso di droga- spesso la vicenda non viene resa pubblica. Neanche nel caso in cui i propri cari vengano trattati iniquamente, oppure vengano lesi i diritti umani”
spiega Anedda.
Ma possono anche subentrare motivazioni politiche e diplomatiche.
“Noi seguiamo due casi, uno in Oman e l’altro in Guinea Equatoriale, dove abbiamo capito che bisogna fare molta attenzione con le informazioni mediatiche, dato che i nostri connazionali potrebbero rischiare anche la vita”.
C’è un ulteriore elemento da tenere in considerazione: un timore che può sembrare assurdo, ma in realtà trova purtroppo riscontro nella realtà. C’è il rischio che, a fronte di un’esposizione mediatica, il Paese possa trattare ancora peggio il detenuto.
“Noi valutiamo molto bene, anche con i consolati di competenza questa eventualità, perché molti Paesi non vogliono interferenze. Soprattutto quando si tratta di casi di innocenza, o dove sono stati lesi diritti fondamentali”.
Il ruolo del consolato
Una delle maggiori criticità riscontrate da parte delle famiglie è la mancanza di ciò che in Italia è il “gratuito patrocinio”.
Infatti, oltre ai problemi di comunicazione e di ignoranza in merito alla legislazione del Paese, spesso i familiari si ritrovano a dover affrontare anche esose spese legali. Oltre, ovviamente, alla necessità di provvedere ai bisogni primari del proprio caro in carcere.
Noi di TAG24 ci siamo occupati di casi come quello di Filippo Mosca, condannato definitivamente a 8 anni e tre mesi di carcere in Romania; e di Giacomo Passeri, al momento detenuto in Egitto.
I familiari spesso lamentano anche una scarsa collaborazione da parte del consolato, a cui si rivolgono alla ricerca di un supporto. Perché questo succede?
“Il consolato non può entrare nel merito dell’accusa. Proprio come noi non vorremmo che un governo esterno entrasse nel merito di un processo di una persona straniera detenuta in Italia” spiega Anedda.
“Il Consolato può intervenire con gli avvocati, fornire beni di prima necessità o verificare che il connazionale riceva un trattamento equo. Per esempio, se tutti i detenuti dormono a terra, è improbabile che possa dire: ‘Datemi un materasso nuovo’. Può intervenire in piccole cose”.
Ci sono inoltre delle difficoltà legate direttamente al Paese in cui si trova il detenuto, come in Sud America. Le azioni del consolato possono essere ostacolate. Ma c’è anche un altro aspetto da considerare, evidenziato dalla presidente Anedda.
“Non c’è forza lavoro. Chi si occupa degli italiani all’estero deve seguire tutti i cittadini, non solo i detenuti. Senza contare che spesso le carceri sono distanti dal consolato, quindi andare a trovare i nostri connazionali può rivelarsi una trasferta difficile. Noi stiamo cercando di migliorare queste situazioni: nell’ultima audizione in Senato hanno valutato di poter sondare, con gli italiani che vivono altrove, la possibilità di creare reti di persone che facciano volontariato per dare una mano”.
Le conseguenze della detenzione
Prigionieri del Silenzio ha seguito i casi di Filippo Mosca e Luca Camalleri, detenuti in Romania. Sono stati presenti all’udienza del 7 marzo di quest’anno a Costanza, hanno fornito un traduttore e contribuito alle spese della mamma di Filippo, Ornella Matraxia.
Ora stanno seguendo un caso a Vienna, in cui le informazioni sono poche e confuse. Ma la lista dei connazionali supportati è lunga: molti hanno avuto risvolti positivi.
“Tommaso Bruno ed Elisabetta Boncompagni erano stati arrestati in India all’epoca dei marò. Hanno trascorso cinque anni in prigione da innocenti: però alla fine la loro innocenza è stata riconosciuta. Un’altra storia piuttosto nota è quella di Angelo Falcone, sempre detenuto in India per tre anni e poi rilasciato”.
Le conseguenze di queste ingiuste detenzioni è però pesante.
“Anche se riconosciute innocenti, queste persone spesso tornano in patria cambiate e dovendo affrontare delle difficoltà, sia psicologiche che di reinserimento nella società. So di persone che continuano ad avere incubi dopo anni. Incontrano degli ostacoli nella vita lavorativa, perché non hanno neanche un appoggio psicologico. Uno dei nostri obiettivi è quello di creare una rete di psicologi che possano aiutarli. Spesso le famiglie faticano a chiedere aiuto anche dopo che il caso si è fortunatamente risolto”.