Pietro Malegori debutta al cinema con la sua opera prima intitolata “Shukran” tratta dall’omonimo romanzo del 2016, basato su fatti realmente accaduti, di Giovanni Terzi. Il film è stato presentato in anteprima all’edizione del 2023 del festival Alice nelle Città ed è uscito nelle sale italiane lo scorso 8 luglio. Troviamo l’attore Shahab Hosseini nel ruolo del protagonista, il dottor Taher Haider, che dopo un doloroso trauma si ritroverà a dover fare una scelta etica e morale particolarmente ostica. In questo personaggio troviamo delle similitudini con Krzysztof, protagonista del primo episodio del Decalogo di Kieślowski.

“Shukran”, recensione

Siria. Anni della guerra.
Taher Haider (Shahab Hosseini) è un individuo solitario; non ha né moglie né figli, lavora come cardiochirurgo pediatrico presso un ospedale di Damasco e vive in una stanza d’albergo. La sua esistenza è totalmente dedita al lavoro, ma in una maniera asettica, fredda, robotica. Pare quasi non riesca a provare alcuna emozione: distaccato se perde un paziente durante un’operazione, lucido e controllato, non lascia trasparire alcun turbamento. Ma non ha l’aria di chi gioca a fare Dio, non è il classico medico narciso innamorato di se stesso e inebriato dal proprio successo. Piuttosto sembra essere stato svuotato da una forza oscura che ha prosciugato la sua anima, portandogli via tutta la gioia. Taciturno e perennemente assorto in un assordante silenzio interiore, è come se eseguisse meccanicamente ogni azione quotidiana. È un bell’uomo Taher, con la pelle ambrata, gli occhi scuri e una folta chioma di capelli castani, ma ha il volto stanco di chi si è perso, circondato dalla disperazione. È come se metaforicamente resistesse, se pur a stento, mentre tutto intorno a lui crolla esattamente come Damasco, la città che rimane in piedi in una terra martoriata dalla guerra. Il dottor Haider possiede lo sguardo spento e disincantato di chi ha guardato l’orrore dritto in faccia e gli è sopravvissuto. Tutta l’allegria che aveva in corpo sembra essersi eclissata all’ombra della disillusione. Di lui è rimasto soltanto un involucro vuoto che indossa i panni da medico senza alcuna empatia, come fosse una macchina.

Lui e suo fratello Ali (Abdelhafid Metalsi) non si somigliano affatto, non si sono mai somigliati. Sin da bambini sono sempre stati profondamente diversi: Taher più ambizioso ed egoista, Ali più buono e sensibile al punto tale che tutto quel sentire sembra sopraffarlo, fino quasi a poterlo schiacciare. Ali fa parte dei caschi bianchi; volontariamente si reca in zone di conflitto gettandosi in mezzo alle macerie, per tirare fuori i corpi di chi è stato schiacciato dai crolli di quei palazzi che rapidi si sgretolano come fossero fatti di sabbia, aggrappato alla debolissima speranza di poter trovare qualcuno ancora vivo e portarlo in salvo. Neanche la paura della morte riesce a fermarlo, il bisogno di aiutare gli altri è per lui una necessità vitale come l’ossigeno. Proprio per questo una sera si recherà nell’hotel dove alloggia Taher chiedendogli di partire con lui per operare Mohamed, un ragazzino di nove anni malato di cuore. Ma Taher rifiuterà e Ali ripartirà senza di lui.

Quella sarà l’ultima volta che i due si vedranno, perché il giorno dopo Ali morirà durante lo scoppio di un attentato. Taher distrutto dal dolore della perdita, come risvegliato da un lungo coma della coscienza, deciderà dunque di esaudire l’ultimo desiderio di suo fratello e partirà, rischiando la vita, per cercare Mohamed. Ma una volta arrivato a destinazione scoprirà che quel bambino è figlio del terrorista che si è fatto esplodere, uccidendo Ali. Il dottor Haider si ritroverà dunque davanti a un bivio: rispettare il volere di suo fratello e il giuramento di Ippocrate salvando quel giovane ragazzo, che è già stato addestrato per diventare un terrorista proprio come suo padre, o tornare a Damasco lasciandolo morire.

“Shukran”, critica

Opera prima per il regista monzese Pietro Malegori che, col suo lungometraggio “Shukran”, riporta l’attenzione sulla guerra siriana, tutt’ora in atto, ormai ignorata dalla coscienza comune.
La Siria, nello specifico, appartiene a uno di quegli Stati del Medioriente ridotti a poco più che un cumulo di ceneri anche a causa di rivendicazioni religiose, non soltanto economiche, dove si uccide in nome di una qualche divinità proprio in quelle terre delle quali Dio sembra essersi dimenticato.

È il 2011 quando scoppia ufficialmente la guerra civile. Il sistema semi capitalista di Bashar al-Assad, che dal 2006 ha portato ad Aleppo e Damasco uno sfarzo lussuoso a beneficio dalla borghesia elitaria e a discapito di tutto il resto dei cittadini, costretti in situazioni di povertà e indigenza, spinse l’opinione pubblica a ritenere la Nazione siriana, chiamandola addirittura “la rosa del deserto”, un luogo di benessere economico che in realtà non le apparteneva affatto. I tagli governativi ai sussidi di vecchia data colpirono le aree più agresti del Paese e il malcontento dovuto a questo ulteriore aggravamento economico condusse i contadini siriani ad allearsi con i salafiti, una fetta più conservatrice della popolazione appartenente all’Islam. A questo si aggiunsero i conflitti con gli americani, quando il governo di Bashar al-Assad si rifiutò di prestare alleanza agli Stati Uniti durante l’occupazione del suolo iracheno (occupato dal 2003), Stato al diretto confine con la Siria. Motivo per il quale l’allora Sottosegretario statunitense Jhon Bolton inserì la Siria nella lista denominata “Asse del Male”, risalente al governo George W. Bush, che conterrebbe le Nazioni facenti parte di un ipotetico complotto a favore del terrorismo internazionale e dell’impiego di armi di distruzione di massa. Questo isolò la Siria dal resto del mondo, facendola apparire come un potenziale pericolo. In tale contesto socio-economico e religioso nel 2011, durante la primavera araba, inizia in via ufficiale la guerra civile dapprincipio insorta nel tentativo di spingere alle dimissioni il presidente Bashar al-Assad. Ma i salafiti, intenzionati a ottenere l’istituzione della Sharia in Siria, riuscirono ad accaparrarsi il consenso della maggior parte dei ribelli. Da qui l’inasprirsi del conflitto bellico, che perdura tutt’oggi, tra gravi attentati e attacchi terroristici.

Il film “Shukran”, basato su fatti realmente accaduti già narrati nell’omonimo romanzo di Giovanni Terzi, si sviluppa proprio in questi anni di gravi contrasti mostrandoci una storia cruda che non lascia spazio alla speranza. Il regista Malegori utilizza un linguaggio necessario al risveglio delle coscienze; durante tutto il lungometraggio non c’è un attimo di respiro che conceda tregua per donare pace allo spirito di ognuno di noi. Brutale, dolorosa, estenuante questa pellicola procede a passo sicuro e crudele nella ricostruzione di una realtà attuale che ci mostra l’altra faccia dell’umanità: quella che non conosce più redenzione. Anche il finale rimane imperturbabile nel racconto di un realismo impietoso. Assistendo a questo spettacolo dilaniante non ho potuto fare a meno di pensare al fatto che la morte accomuna tutti i popoli del mondo. Piega in ginocchio ognuno di noi dinnanzi a un dolore improvviso e insopportabile.

Inesorabile, il Tristo Mietitore giunge senza concedere appelli e gli esseri umani hanno sempre cercato in qualche modo di esorcizzare questo fenomeno, che ci tocca indistintamente e che ci porta a voler accompagnare i cari estinti verso l’eterno riposo nei modi più disparati: preghiere, estrema unzione, rituali magici, litanie, imbalsamazione delle spoglie, sacre sepolture fasciando i corpi con delle bende. Ogni cosa nel vano tentativo di rendere più sopportabile la soffocante sofferenza dell’abbandono, dimenticandoci a volte che prima o poi toccherà anche a noi. Sarà oggi o domani? Sarà rapido e indolore, o una lenta agonia? Ma alla fine ciò che non ci è dato sapere spesso ci tormenta solo per qualche istante, per poi tornare immediatamente nel nostro stato di egoismo cieco che ci fa dimenticare quel che accade a milioni di nostri fratelli sotto lo stesso cielo. E come se quelle morti non ci riguardassero, guerre inutili continuano ad andare avanti mietendo milioni di vittime più o meno innocenti, ma davanti alla sacralità della morte non dovremmo essere noi a giudicare chi è meritevole di vivere e chi no. Eppure la noncuranza che contraddistingue molti di noi, lascia che tutto questo orrore accada come se quelle vite avessero un valore minore. Come dice Henry Chinaski, protagonista di Factotum tratto dall’omonimo romanzo di Charles Bukowski, alla fine del film: «vite completamente usate, consegnate agli odi e ai rancori più insignificanti. Alla fine qui non resta niente alla morte da portare via».

In conclusione, vi consiglio caldamente la visione di questo bellissimo film al quale assegno quattro stelle e mezzo su cinque.