Quando poco più di un anno fa, Silvia Zarrelli decise di svolgere la tesi nella mia materia, Filosofia del Diritto, fu abbastanza semplice individuare il tema da affrontare, per una serie di motivi diversi. Silvia è figlia di Saverio, personaggio eclettico ed appassionato della sua terra, che è pure la mia. Parliamo di Arpino dove la sua famiglia vive da generazioni, nella parte più alta e più bella, l’Acropoli, fondazione saturnia secondo il Mito ancestrale. Silvia è anche nipote di quello che è stato un mio compagno di scuola, dei primi anni delle elementari, come si chiamavano allora, il caro e indimenticato Luigino. Un altro personaggio assai caratteristico, specialista in marketing, diremmo oggi. Seppure in un contesto lontano nel tempo e in un mondo che non esiste più. Luigino, fra le altre sue imprese, fu capace di comprare un asino da un gruppo di Rom e poi, dopo un adeguato restyling, di rivenderlo agli stessi con un prezzo maggiorato. Ma il motivo che ne rende particolarmente caro il ricordo ai suoi ex compagni di scuola, fu perché mise una “cianghetta”, uno sgambetto, cioè fece cadere per terra la nostra maestra, Anna Maini Viscogliosi, nota ed impunita psicopatica che nell’indifferenza generale tormentò per anni generazioni di innocenti ed indifesi bambini.
Consigliai a Silvia di occuparsi di qualcosa che le fosse caro e vicino, considerando pure l’accessibilità alle fonti e ai materiali di studio, come l’ambito della disciplina, la filosofia del diritto, appunto.
Il diritto si occupa anche di regole, di fatto indica una linea di condotta. Ma non è il solo a definire regole. In molti ambiti ci sono regole: ogni volta che si vogliono indicare obiettivi da raggiungere ed i modi per farlo. La morale è un insieme di regole, ma pure l’etichetta che ci insegna a stare a tavola e relazionarci con gli altri. Avere cura del proprio corpo, ad esempio, significa seguire un regime alimentare, di attività fisica, rispettare precetti di ordine medico.
Un altro ambito dove la regola si impone in modo imperioso è quello della religione. Non a caso la Thora, la parte iniziale della Bibbia, i primi 5 libri, si può rendere insieme con “insegnamento”, “istruzione”, “legge”. Si tratta delle principali regole di vita che Dio invia all’uomo. I dieci comandamenti sono una sorta di principi costituzionali, alla base di questo sistema di leggi, con l’enunciato che sta alla base di tutto il monoteismo abramitico: “Io sono il Signore Dio tuo, non avrai altro Dio”, la unicità/esclusività di Dio.
Nella religione la regola è la regola, si potrebbe dire con un facile gioco di parole. Nell’Islam, ad esempio, si ricorda spesso che questa religione impone una serie di regole da rispettare che coinvolgono tutta la vita del credente, “dalla culla alla tomba”. Nelle religioni abramitiche, ma praticamente in tutte le dottrine religiose, non esiste una distinzione fra ambito privato e pubblico. Dio è nei Cieli, ma pure nei cuori: tutto vede, tutto governa.
Il Cristianesimo non fa eccezione alla regola, si potrebbe dire. In altri termini è fondato su una serie di precetti che investono tutti gli ambiti della vita individuale e comunitaria. La vecchia e superficiale distinzione fra l’ebraismo, religione della Legge, e il cristianesimo dottrina dell’Amore non ha gran senso. “Ama il prossimo tuo come te stesso” non è un invito generico, è un comandamento. Sta ad indicare un obbligo, un dovere “giuridico”.
Anche nel Cristianesimo le regole, i precetti da seguire per vivere da buoni cristiani e guadagnarsi la beatitudine eterna, abbracciano tutte le sfere dell’esistenza: dall’alimentazione alla sessualità. Indicano i nostri doveri innanzitutto verso Dio, il Padre/Creatore e suo Figlio Unigenito, “della stessa Sostanza del Padre”, come recita il testo finale del Concilio di Nicea, poi dottrina della Chiesa Cattolica.
Poi ci sono i doveri verso in nostro prossimo, persino verso i nostri nemici (diligite inimicos vestros), il mondo che ci circonda e noi stessi. Esistono, ad esempio, una serie di regole che riguardano il nostro corpo: è vietata la masturbazione, non possiamo decidere di farla finita, non possiamo mangiare o bere certe cose in certi giorni.
Ma chi ci dà queste regole, chi le fa rispettare? Nel Cristianesimo si sostiene che vengono da Dio ed arrivano all’uomo attraverso i profeti, poi attraverso Cristo e i suoi Apostoli che sono i fondatori della sua Chiesa. Quest’ultima deriva la sua autorità dagli Apostoli, che la traggono dal Figlio, che è un tutt’uno con il Padre.
Nel Cristianesimo, a differenza dagli altri due monoteismi abramitici, esiste una diversa maniera di vivere la fede: nel mondo, ma allo stesso tempo fuori dal mondo, attraverso gli ordini religiosi e monastici. Che si caratterizzano essenzialmente per il loro fondatore e per la regola che li disciplina. Il monachesimo è una istituzione antichissima che risale alle origini del cristianesimo, presente in tre continenti.
La caratteristica comune di ogni ordine monastico è la vita in comune dei monaci, o delle monache, separata dal resto della comunità civile e dedicata ad assolvere i principali precetti del cristiano, in prima istanza la preghiera. La separatezza della comunità monastica dal resto della comunità civile piò essere più o meno accentuata, come pure quella dei religiosi o delle religiose all’interno della loro comunità. In molti conventi c’è l’obbligo del silenzio o addirittura vige un regime di “clausura”, cioè di netta separazione fra la comunità monastica e quella esterna, che possono interagire, ma non si mescolano mai.
La tesi di laurea di Silvia Zarrelli, poi rivista dal padre Saverio e pubblicata a doppia firma per le edizioni Istituto “Vincenzo Zarrelli”, con il titolo “Il Monastero Benedettino S. Andrea Apostolo in Arpino”, è stata presentata dall’autrice e dal sottoscritto, venerdì 5 luglio nel monastero delle Benedettine.
Il testo ripercorre la storia di questa realtà che risale, probabilmente, al sesto secolo e mostra le complesse dinamiche che nei secoli hanno coinvolto il monastero, ma rispecchiano allo stesso tempo una serie di problematiche eterogenee, tanto sul piano strettamente religioso, quanto su quello della storia e del costume.
Nella ricerca emergono diversi livelli: l’organizzazione interna del monastero attraverso la sua regola; le relazioni che si sono stabilite nel corso dei secoli fra il convento e la realtà sociale, politica e culturale di Arpino; le relazioni fra il convento e le autorità ecclesiastiche, in particolare con il diretto superiore, il vescovo della diocesi e, ovviamente ed in prima istanza, la regola benedettina e il modo in cui è stata vissuta. In ultima istanza le relazioni fra questa realtà locale ed il resto del mondo, che spesso è intervenuto in modo brutale, attraverso invasioni, occupazioni, incendi e distruzioni. Del monastero abbiamo incerte fonti sulle sue origini, anche per la perdita di molta della documentazione in seguito all’incendio del monastero ad opera delle milizie di Corrado II nel 1252. Il monastero, isola di contemplazione lavoro e preghiera, è stato costantemente non solo lambito, ma pure invaso dai marosi e dalle tempeste della storia. Si pensi, ad esempio, al periodo della Rivoluzione francese e della invadente presenza delle truppe napoleoniche nel Lazio, o agli eventi post-unitari che portarono all’abolizione degli ordini religiosi e solo una serie di intelligenti escamotages permise al convento di sopravvivere. Mi riferisco al fatto che accanto alle anziane suore che poterono rimanere nei locali del convento, si aggiunsero delle inservienti/badanti che, di fatto, erano delle novizie.
Interessante anche il quadro che emerge delle relazioni fra il convento e la gente di Arpino. Di fatto, gran parte delle benedettine, comprese le Badesse, veniva da famiglie arpinati. Nel caso si trattasse di una famiglia benestante, la nuova suora portava con sé una ricca dote, che entrava a far parte del patrimonio del monastero. La presenza del monastero nella comunità cittadina era avvertita soprattutto nei momenti di crisi, quando era visto come un punto di riferimento, non solo in quanto luogo di presenza e di vita religiosa, ma pure di sostegno materiale verso i più bisognosi. Le relazioni fra il convento e la comunità cittadina, la maggiore o minore interazione fra queste due realtà, fu anche e non di rado motivo di problemi e dispute fra il convento e le autorità ecclesiastiche, che mal vedevano un coinvolgimento, seppure per motivi religiosi, educativi e caritatevoli delle benedettine che, per statuto, potremmo dire, erano votate alla clausura, alla riservatezza, al silenzio e alla preghiera.
Un caso eclatante e per più versi istruttivo sui rapporti fra il monastero, la gerarchia ecclesiastica e la società civile arpinate, ivi compreso il clero locale, fu quello del contrasto fra il vescovo Montieri e la badessa del monastero benedettino di Sant’Andrea agli inizi degli anni 40 del XIX°secolo, ben descritto nel libro. Il primo, dopo una visita al Cenobio benedettino, prese una serie di misure restrittive, come la chiusura di uno dei parlatoi, tese essenzialmente a limitare i contatti fra le suore e gli arpinati, per diversi motivi frequentanti il cenobio: dai familiari delle religiose, ai bisognosi, a quanti chiedevano e spesso ottenevano aiuti e sostegni di vario tipo, basti vedere la imponente architettura del forno, non certo usato per le sole esigenze del convento. Il vescovo Montieri ritenne responsabile in prima istanza la Badessa, Maria Colomba Cossa, che fu sospesa dal suo incarico. Ne seguì un contenzioso articolato su piani diversi: fra le suore tutte solidali con la loro badessa e, seppure in modo indiretto, fra gran parte delle famiglie arpinati, che portarono dalla loro parte anche il clero locale, e il Montieri.
Le gerarchie ecclesiastiche intervennero per dirimere la questione, che finì in un nulla di fatto: la badessa censurata dal Montieri fu reinsediata nel suo ruolo con le connesse prerogative. È però interessante notare alcuni momenti della vicenda e di suoi protagonisti. Innanzitutto la solidarietà che le suore ebbero dalle diverse componenti della società arpinate: tanto dalle famiglie patrizie e benestanti che da quelle più disagiate. Per motivi diversi: diverse suore erano di famiglie arpinati e del circondario, non di rado le badesse appartenevano a famiglie dell’élite sociale della città. La badessa in questione, Maria Colomba Cossa era di una delle più antiche famiglie patrizie di Arpino, famiglie che contribuirono nel corso dei secoli alla vita del cenobio anche con ricche “doti” e donazioni come immobili e terreni. Per un altro verso le suore avevano anche un ruolo sociale di cui beneficavano soprattutto i più bisognosi, in termini di aiuti materiali, assistenza, conforto e supplenza in alcuni casi di uno ruolo sociale che lo Stato era ben lunghi dall’avere, ad esempio, in ambito educativo.
È interessante notare, per un altro verso, gli argomenti “giuridici” adottati dalle religiose in loro difesa: essenzialmente si sosteneva la non legittimità delle censure del vescovo non solo e non tanto perché non motivate, ma in quanto intervenivano in una sfera non di sua competenza, nella vita del convento che era fondata su una regola e su prerogative di autonomia garantite dalla tradizione e dal diritto ecclesiastico. Con una abilità, non scevra di conoscenze giuridiche, le religiose riuscirono per certi versi a ribaltare la tesi del Montieri e i ruoli delle parti in causa, nel senso che il Collegio dei cardinali che giudicò la questione giunse alla conclusione che le novitates, semper odiosa, perturbant e quindi vitandae sunt. Ma queste odiose novità che creano malessere e devono essere evitate non erano colte nel comportamento della badessa e delle suore, ma nei decreti vescovili che si intromettevano in un contesto, quello del convento di Sant’Andrea e della sua applicazione della Regola benedettina, cose che non erano di pertinenza del vescovo. In altri termini si riconosceva, seppure in modo prudente ed apparentemente conciliatorio, per un verso la relativa autonomia e il diritto all’auto-organizzane del Cenobio, pur nel rispetto del dettato della Regola benedettina, e per un altro verso il ruolo “sociale” del Cenobio che, del resto, non era scisso da quello principale, il religioso, a partire dal principio “sociale” del Cristianesimo: “Ama il prossimo tuo”.
La presentazione del libro si legava ad un’altra iniziativa, la presentazione del restauro di un crocifisso del XIII° secolo, di cui parleremo in un’altra occasione, con interventi del dott. Alessandro Betori, Soprintendente ABAP di Frosinone e Latina, della dottoressa Chiara Arrighi, restauratrice e della ricercatrice Arianna Ercolani.
Alla iniziativa, moderata dal dott. Chiappini, ha partecipato il nuovo abate di Montecassino, Luca Antonio Fallica, che ha portato il saluto di questa realtà alla base di tutta l’esperienza benedettina.
Ci sarebbe ancora molto da dire su un’istituzione, il Cenobio benedettino di Sant’Andrea, che ha 1500 anni di vita, innanzitutto sarebbe utile, anzi necessario, parlare del significato che oggi ha per una ragazza scegliere la vita di clausura e da quali ritmi ed emozioni questa vita sia scandita. In piccola parte ne ha parlato nel libro dei Zarrelli la badessa emerita, Pirro, ma sarebbe utile e significativo se ci raccontassero e testimoniassero la loro esperienza esistenziale le suore stesse del Cenobio benedettino.
Confido nella disponibilità di suor M. Cristina Cosa, giovane badessa del Cenobio che ha portato il saluto suo e delle altre suore, in parte presenti all’iniziativa, perché ci descriva, per così dire, dall’interno, un’esperienza così coinvolgente e controcorrente come la vita di una suora di clausura.
Enrico Ferri, professore di Filosofia del Diritto e Storia dei Paesi Islamici all’Unicusano