Marco Vannini aveva 20 anni quando, il 17 maggio del 2016, morì a causa di uno shock emorragico dopo essere stato raggiunto da un colpo di pistola a casa della fidanzata Martina Ciontoli: ecco perché il suo caso è stato citato nel corso del processo sull’omicidio di Serena Mollicone, scomparsa e poi trovata morta nel giugno del 2001 nel Frusinate.

Chi era Marco Vannini e come è morto: la ricostruzione dell’omicidio

Originario di Cerveteri, Vannini aveva da poco terminato il liceo scientifico e lavorava stagionalmente come bagnino quando, nel maggio del 2016, morì dopo aver trascorso la serata a casa della fidanzata Martina Ciontoli a Ladispoli.

A provocarne il decesso fu, secondo l’autopsia, lo shock emorragico che riportò dopo essere stato raggiunto da un colpo di pistola che, trapassandogli il braccio sinistro, gli era entrato nell’emitorace, poi nel polmone e infine nel pericardio, la membrana che protegge il cuore.

Il motivo? Non è mai stato chiarito con certezza. La ricostruzione ufficiale, quella accettata dai giudici in sede processuale, è che si trattò di un incidente: che il papà della ragazza che frequentava, Antonio Ciontoli, sottoufficiale della Marina distaccato ai servizi segreti, lo prese in pieno con una Beretta semiautomatica calibro 9 che a suo dire aveva da poco pulito in vista di un’esercitazione di tiro, dopo avergliela puntata contro “per scherzo”.

Una cosa è certa: se il giovane fosse stato soccorso per tempo, si sarebbe salvato, perché il proiettile non compromise le sue funzioni cardiache. Si spense per aver perso troppo sangue dopo che per ore i Ciontoli lo avevano tenuto in casa, sofferente, tentennando prima di avvisare i soccorsi.

A dimostrarlo, una serie di telefonate che quella sera fecero al 118, sostenendo che il ragazzo si fosse solo messo paura dopo essere caduto nella vasca da bagno ed essersi “bucato un pochino con un pettine a punta”.

Perché il suo caso è stato citato nel corso del processo Mollicone

Serena Mollicone aveva due anni in meno quando, nel giugno del 2001, scomparve nel nulla dopo essere stata in ospedale per un controllo di routine: due giorni dopo, il 3 giugno, il suo corpo fu trovato senza vita, con un sacchetto di plastica avvolto attorno alla testa, in un boschetto del Comune di San Giovanni Campano, a circa 8 km da Arce, dove viveva.

La perizia medico-legale è arrivata alla conclusione che morì per asfissia – a causa del nastro adesivo col quale era stata imbavagliata – dopo aver sbattuto la testa. Dove? Secondo l’accusa, allo spigolo di una porta dell’allogggio in uso all’allora maresciallo dei carabinieri della caserma di Arce Franco Mottola e della sua famiglia, composta dalla moglie Annamaria e dal figlio Marco, amico di lunga data della giovane.

L’ipotesi è che la stessa vi si fosse recata per denunciare il coetaneo, che da qualche tempo aveva iniziato a frequentare “giri loschi” e che lui al culmine di una lite l’abbia colpita, ferendola, venendo aiutato a disfarsi del suo corpo dai genitori. Tutti e tre, secondo il procuratore generale Francesco Piantoni (che nel processo a loro carico rappresenta l’accusa e che ha chiesto di condannarli a 24 e 22 anni di carcere),

avevano l’obbligo di garanzia di prestare soccorso alla ragazza, che era entrata nell’abitazione di cui solo essi avevano la disponibilità,

venendosi a trovare in una “situazione di pericolo”. Proprio come i Ciontoli avrebbero dovuto fare con Marco Vannini e non hanno fatto. Entrambe le famiglie avrebbero avuto, in pratica, comportamenti omissivi. Questo il motivo per cui i due casi sono stati accostati.