Il regista quarantenne Enrico Maria Artale lo scorso 6 giugno ha presentato al cinema il suo ultimo film “El Paraíso”, premiato come miglior sceneggiatura all’80ª edizione del Festival di Venezia. Con questa pellicola, esattamente come nel suo primo film “Il Terzo Tempo” con Lorenzo Richelmy, affronta il rapporto madre-figlio all’interno di una realtà familiare dove la figura paterna è assente. Nel cast troviamo Edoardo Pesce, Margarita Rosa de Francisco e Gabriel Montesi.

“El Paraíso”, recensione

Julio (Edoardo Pesce) ha quasi quarant’anni e ha passato tutta la vita al fianco della madre colombiana (Margarita Rosa de Francisco). Di suo padre non v’è traccia: non una foto in casa, non una parola a riguardo. Solo lui e la mamma a condividere ogni giornata in questo rapporto solitario, che li isola dal resto del mondo risucchiandoli per risputarli in una realtà dove a esistere ci sono solamente loro due. Vivono poco fuori Roma, non lontano dall’aeroporto di Fiumicino, in una villetta fatiscente a due piani. A pochi passi da loro c’è un mare che ha molto poco di romantico, dai toni grigi e verdastri e dall’odore che ricorda quello fognario, che rende questo angosciante scenario ancor più soffocante. A guardarla dal fuori questa sembrerebbe l’incarnazione vivente di un incubo, ma Julio e sua madre sono talmente dipendenti dalla loro quotidianità che va avanti, sempre uguale, da più o meno quattro decenni che in una sorta di folie à deux si immaginano felici, proprio come un tossico con la siringa in mano. Lavorano insieme tagliando la cocaina per conto di Lucio (Gabriel Montesi), il narcotrafficante di zona, la sera vanno a ballare latino americano e condividono ogni istante quasi legati a doppio nodo dal cordone ombelicale, che è come se fosse attorcigliato intorno al collo di lui; non abbastanza per soffocarlo, ma a sufficienza per tenerlo costantemente in uno stato di semi asfissia che gli dà alla testa. Forse sarà esattamente questa metaforica mancanza d’aria a non fargli vedere lucidamente in che pozza fatale è scivolata la sua esistenza, eppure non sembra davvero in grado di allontanarsi dal petto scarno della madre.

Non si prende molto cura di se stesso: a malapena si fa la doccia, porta i capelli lunghi che gli arrivano poco sopra le spalle, sempre sporchi e spettinati. È leggermente in sovrappeso, con l’addome rilassato e le braccia morbide, come se il cibo fosse una delle poche cose nelle quali cerca disperatamente un briciolo di soddisfazione esistenziale e anche il più minuscolo granello di gioia, che proprio non trova in quella routine avvilente. Ha il viso tondo, con le guance paffute adombrate da un fitto strato disordinato di peli scuri, gli occhi di un bell’azzurro cristallino e un’espressione disincantata che la fa da padrona sul suo volto che ha qualcosa di infantile. Spesso sembra un bambino poco cresciuto, che ha ancora disperatamente bisogno delle attenzioni dell’unico genitore che gli sta a fianco. Ha un certo appetito sessuale, come un giovane adolescente alle prese coi primi pruriti. Non ha mai avuto una ragazza, non ne è capace; quando avverte la necessità di assaporare un po’ di calore umano, per inebriarsi col profumo di donna e per scottarsi col calore delle carni bollenti di un corpo femmineo, va a prostitute. Quasi sempre la stessa, ma pur pagando per avere dell’amore in cambio non è mai violento, o egoista. È gentile e va soltanto alla ricerca di intimità e di compagnia, come un cane randagio. Simile a un uomo esausto che scappa qualche ora da un matrimonio che non funziona più, perché quell’unione tra lui e la madre ricorda uno sposalizio.

Lei è una bellissima donna sudamericana di sessant’anni, ma non ha di certo il tipico fisico latino: è minuta, magra, dall’aspetto che sembra così fragile che solo a guardarla ti viene paura che si possa rompere. Ha i capelli a caschetto, ricci, rovinati da una vita di decolorazioni. Se li tinge da sola di biondo chiaro per risparmiare qualche soldo. Come il figlio ha due bellissimi occhi azzurri, incorniciati da una manciata di rughe profonde che le delineano lo sguardo vispo e intenso. Ha la carnagione chiara, la bocca messa in risalto da un grande sorriso dalla dentatura perfettamente allineata. In volto porta inconsapevolmente un’espressione folle, che lascia trapelare un carattere forte e indomabile e una psiche messa in ginocchio da una pazzia mal gestita. Si veste in modo eccentrico, kitsch al punto tale che è impossibile per chiunque non notarla.

In questo quadretto familiare irromperà all’improvviso Ines (Maria del Rosario), una ragazza colombiana arrivata in Italia come corriere per la droga. Ospite a casa di Julio e della madre, non è esattamente ciò che definiresti una narcotrafficante navigata: come nella maggior parte dei casi la povertà ha reso facile preda del cartello una giovane sprovveduta e ingenua, convinta che a ingoiare qualche ovulo di cocaina e affrontare un viaggio intercontinentale non ci voglia poi molto. E invece Ines rischierà di morire, sdraiata su un divano vecchio e logoro in quella dimora che cade a pezzi. Ma lui riuscirà a salvarla, prendendosene cura di lì a qualche giorno prima che lei riparta per la Colombia. Questo incontro per Julio sarà fatale, ridestandolo inaspettatamente da un sonno durato troppo a lungo e metterà in crisi il sodalizio con la madre, proprio come una vecchia coppia di sposi che non si amano più. Deciso a partire per ritrovare Ines, Julio rischierà di perdere per sempre la mamma. Ma un bambino di quarant’anni, ancora rannicchiato nel grembo materno per essere cullato, sarà capace di vivere facendo a meno di un legame che lo tiene stretto impugnandolo per le viscere?

“El Paraíso”, critica

Uscito lo scorso 6 giugno nelle sale italiane, “El Paraíso” è il secondo film diretto da Enrico Maria Artale. Esattamente come ne “Il Terzo Tempo”, la sua opera prima, il regista sceglie di raccontare una storia che ci parla a cuore aperto della relazione conflittuale tra una madre e un figlio cresciuto senza padre. L’assenza della figura paterna sembra quasi un pensiero ricorrente per lui, che per sua stessa ammissione è stato allevato soltanto dalla mamma e ha incontrato suo padre in un’unica occasione all’età di venticinque anni, e i suoi film sembrano una sorta di esplorazione di questo universo dove l’unica presenza genitoriale è quella femminile. Artale si tuffa in un abisso di realtà possibili per chi è costretto a fare a meno della vicinanza paterna, come a voler esorcizzare la sua sofferenza, a trovare conforto, espiazione per la sua coscienza ferita. Del resto questo è il suo secondo lungometraggio e anche qui si immerge metaforicamente in un mare profondissimo di dolore per esplorarne i fondali più bui, come a cedere al richiamo irrefrenabile di un desiderio dell’anima di dragare a fondo in queste acque misteriose.

Il rapporto madre-figlio e la quotidianità che condividono in questa storia sono come una specie di purgatorio, dove entrambi attendono un giudizio divino che gli conceda di trovare un’evoluzione per le loro esistenze, che culmina per lui in un viaggio alla ricerca delle origini materne per aggrapparsi ancora alla presenza di lei ormai estinta. Artale confeziona un capolavoro bellissimo, struggente, straziante come una ferita sanguinante. Edoardo Pesce è semplicemente commovente. Ottime anche le interpretazioni della bravissima Margarita Rosa de Francisco, di Gabriel Montesi che con mio sommo piacere sto vedendo sempre in più pellicole, e di Maria del Rosario.
Splendido. Quattro stelle e mezzo su cinque.