Esordio cinematografico per Francesco Frangipane che passa dal teatro al cinema, portando sul grande schermo il riadattamento della sua miglior opera teatrale intitolata “Dall’Alto di una Fredda Torre”. Tra dramma e tragedia greca, la storia di questa pellicola ci pone dei difficili temi esistenziali. Nel cast troviamo Vanessa Scalera ed Edoardo Pesce nel ruolo dei due protagonisti.

“Dall’Alto di una Fredda Torre”, recensione

Elena (Vanessa Scalera) e Antonio (Edoardo Pesce) sono gemelli non omozigoti. Sono diversi praticamente in tutto, ma si amano follemente. Hanno poco più di quarant’anni, durante i quali non sono riusciti a costruire alcun tipo di rapporto significativo a parte il loro. Vivono in simbiosi, come sospesi in aria dentro ad una bolla che li culla in questa realtà dove a esistere ci sono soltanto loro due. Antonio vive da solo in campagna, Elena in un appartamento in città. Lei lavora come istruttrice di nuoto insegnando ai bambini a nuotare; è inaspettatamente dolce con loro, quasi materna, come a voler colmare il vuoto della sua mancata maternità coi figli degli altri. Non la definiresti né bella né brutta, ha un aspetto piuttosto ordinario coi suoi tondi occhi marroni incorniciati da due borse pronunciate e da una manciata di rughe, le labbra dalla forma allungata non particolarmente piene, il naso a patata, i capelli castani dal taglio trasandato e il fisico minuto senza curve. Ha un temperamento forte, sfrontato, a tratti eccessivamente duro, non si lascia quasi mai andare ad alcun tipo di tenerezza tranne che con suo fratello. È innamorata di suo padre e, a modo suo, vuole bene anche alla madre con la quale però ha un rapporto dalla conflittualità appena accennata, camminando pericolosamente sul filo di un rancore mal celato. Le loro conversazioni ondeggiando sempre su questa corda immaginaria sulla quale entrambe camminano, correndo continuamente il rischio di cadere da una parte o dall’altra.

Antonio ad una prima occhiata superficiale sembra avere un carattere più mansueto, docile, gioviale ma non per questo scarsamente autorevole. Lo definiresti come uno di quei tipici soggetti dalle idee molto chiare, ma espresse con infinita dolcezza. Ha la battuta pronta, ma più ridanciana e meno sarcastica rispetto a quelle di sua sorella. Sul suo viso dalle guance paffute, adombrate da una folta barba dai peli neri e grigi, aleggia un onnipresente sorriso accogliente. Ha il corpo po’ appesantito da un addome abbondante e dalle braccia morbide. Ha gli occhi azzurri, una ricca chioma di capelli neri, il naso tondo e non lo definiresti esattamente un adone. Eppure ha un non so che di attraente, nonostante la sua trascuratezza, che in qualche modo ti attira. È infintamente affezionato ad entrambi i genitori, Giovanni (Giorgio Colangeli) e Michela (Anna Bonaiuto), ma nei riguardi di sua madre prova una sorta di istinto protettivo, come se la vedesse piccola e fragile. Appassionato di lavori agrari, di cavalli e di vita bucolica, ha sicuramente più argomenti di conversazione in comune con suo padre rispetto ad Elena, che invece detesta tutto ciò che riguarda la campagna.

Le loro quattro esistenze procedono tranquille intervallate dal rito dei pranzi domenicali, rispettati religiosamente con la scadenza di due volte al mese. Tutti i mesi. Non ci sono nipoti, non ci sono compagni, mariti o mogli da portare a casa durante quei pasti abbondanti preparati con dedizione da Michela. Solo loro quattro che vivono come estraniati dal resto del mondo, con un unico elastico immaginario che li tiene legati nonostante conducano vite separate. L’elastico si allarga, di settimana in settimana, ma alla fine li riconduce tutti lì seduti a quel tavolo in sala da pranzo. Ed è proprio in questa pacatezza che all’improvviso si anniderà un dramma inaspettato: Giovanni e Michela contrarranno entrambi una rara sindrome che li metterà a rischio di morte. La malattia di Reiter, che può essere curata con un trapianto di cellule staminali dei parenti più prossimi a patto che siano compatibili. Così Elena e Antonio si sottoporranno a tutte le analisi necessarie, per scoprire che soltanto a lei può essere praticato l’espianto. Da qui, come un violento fulmine in una soleggiata mattina di agosto, apprenderanno la notizia che solo uno dei genitori potrà essere salvato e che la decisione spetta a loro due. Precipitati in questo orrore infernale all’improvviso, all’oscuro di mamma e papà del tutto ignari della situazione, dovranno cercare di fare una cinica scelta decidendo senza pietà su chi lasciare che si abbatta la triste e gelida mietitura della morte.

“Dall’Alto di una Fredda Torre”, critica

Opera prima per Francesco Frangipane che, con “Dall’Alto di una Fredda Torre”, porta sul grande schermo la sua più nota pièce teatrale diretta da lui stesso e scritta dallo sceneggiatore Filippo Gili. Dopo una lunga carriera in teatro, Frangipane sbarca al cinema con una storia che ha le medesime caratteristiche di una tragedia greca, ma ambientata nei giorni nostri. Film girato tra Gubbio e Roma, si sviluppa in tre ambientazioni principali proprio come in uno spettacolo teatrale: la sala da pranzo nella dimora dei genitori, la stanza d’ospedale dove avvengono i colloqui coi medici e la casa di campagna nella quale vive il personaggio di Antonio. Il regista sceglie un solido cast per la rappresentazione di una vicenda dalle tinte fortemente drammatiche, che si sviluppa in un crescendo di tensione e rabbia nei confronti dell’esistenza e dell’imprevedibilità della vita. Sicuramente un buon lavoro, soprattutto trattandosi di un esordio, che però a tratti perde di ritmo e che lascia con alcune domande senza risposta: ad esempio, com’è possibile che due persone adulte e capaci d’intendere che contraggono una malattia non vengano direttamente informate dall’equipe medica, facendo gestire l’intera situazione ai figli?

Per finire, a differenza della spietatezza tipica delle tragedie, la risoluzione di questa pellicola rimane a finale aperto senza avere il coraggio di infliggere un colpo brutale facendo una scelta.
Questo è sicuramente un lungometraggio che ci pone dinnanzi a dei temi difficili da affrontare e da digerire sui quali evitiamo spesso di interrogarci, nonostante siamo perfettamente consci che un giorno potrebbe capitare a ciascuno di noi di dovercisi misurare. Ci ricorda dell’enorme spada di Damocle che aleggia sopra le nostre teste che, come una ghigliottina, potrebbe rapidamente decapitarci senza pietà all’improvviso. Tre stelle su cinque.