Può capitare che l’ambiente di lavoro si riveli stressante e, in questi casi, i lavoratori si chiedono se spetti o meno il risarcimento.

Non si tratta di casi isolati o rari, ma situazioni di questo tipo, purtroppo, avvengono molto più spesso di quanto si possa immaginare. Si pensi alle numerose vittime di mobbing o le condotte inquadrabili nello straining. Si tratta di situazioni facilmente e potenzialmente idonee a far cadere la vittima in una situazione di forte stress, con effetti negativi e, spesso, permanenti.

Cosa ne pensa la Cassazione? Nel testo analizziamo la sentenza n. 15957 del 7 giugno scorso, che afferma il diritto al risarcimento per il lavoratore subordinato.

A tutela del lavoratore in ufficio

A giudicare da alcuni report, gli italiani non se la passano molto bene al lavoro, a causa degli alti livelli di stress. Soprattutto nelle grandi aziende, lo stress da lavoro è sempre più diffuso.

Questa cruda fotografia della realtà va a scontrarsi con quanto previsto dalla Costituzione dal Codice Civile.

La Costituzione italiana dispone la tutela dell’essere umano e della sua integrità psico-fisica, come principio fondamentale ai fini della predisposizione di condizioni ambientali sicure e salubri.

Sulla Costituzione e sui principi da essa dettati, la giurisprudenza ha sottolineato che la tutela del diritto alla salute del lavoratore si configura anche come diritto ad un ambiente salubre, nel suo senso più ampio.

Infatti, la salute dei lavoratori viene tutelata dal decreto legislativo n. 81/2008, dallo Statuto dei lavoratori e da quanto previsto nei singoli contratti collettivi di lavoro.

Ciò che interessa a noi analizzare nel testo, non sono tanto le leggi e gli statuti, quanto più le sentenze che hanno stabilito il risarcimento dei danni se l’ambiente lavorativo risultasse troppo stressante per i lavoratori.

Analisi del caso

Passiamo al cuore del testo, analizzando il caso concreto della sentenza della Cassazione del 7 giugno scorso.

Il caso riguarda un’assistente amministrativa che chiedeva il risarcimento danni per le vessazioni e gli atti ostili subiti dal capo al lavoro.

La domanda è stata rigettata in secondo grado perché si era ritenuto che le difficoltà relazionali erano collegabili alla stessa lavoratrice.

Contro la decisione in secondo grado di giudizio, la lavoratrice non ha demorso, anzi, ha tentato il ricorso in Cassazione. La situazione si è ribaltata.

La Suprema Corte ha sentenziato che i problemi relazionali non escludono di per sé lo straining e, quindi, la vessazione subita costituisce un fatto ingiusto e tale da giustificare il risarcimento del danno. Inoltre, il diritto, come sottolineato dalla Cassazione, sorge anche in mancanza di una condotta mobbizzante.

Spetta il risarcimento se l’ambiente di lavoro è stressante?

In base al caso particolare, è diritto della donna avere il risarcimento dei danni per l’ambiente lavorativo stressante. La Suprema Corte non ha condiviso le conclusioni dei giudici che, come abbiamo spiegato, avevano ritenuto le difficoltà relazionali impunibili alla sola lavoratrice.

Questi, inoltre, non avevano considerato l’ambiente di lavoro stressante. Quindi, il ricorso della lavoratrice è stato accolto.

Oltre a questa che abbiamo discusso nel testo, ci sono state molte ordinanze della Corte di Cassazione che hanno stabilito che il datore di lavoro dovesse pagare al dipendente il risarcimento dei danni per stress da lavoro.

Per esempio, un’ordinanza aveva stabilito che anche laddove non fosse possibile accertare un’ipotesi di mobbing, il Giudice deve sempre verificare se sia possibile pervenire alla condanna del datore di lavoro per non aver adottato misure adeguate a tutelare il lavoratore sia sotto l’aspetto psicofisico che sotto l’aspetto morale.

Ricordiamo, infine, che la causa di mobbing presenta un alto grado di complessità, in modo particolare per quanto riguarda il gravoso onere probatorio a carico del lavoratore dipendente.