Per oltre sessanta ore, il piccolo Alfredo Rampi è rimasto intrappolato nelle viscere di un pozzo, mentre l’intera nazione assisteva con il cuore in gola tramite trasmissione televisiva in diretta. Alla fine, il bambino è morto. L’incidente, noto come il dramma di Vermicino, dal nome della località vicino a Frascati dove è avvenuto, ha avuto inizio il 10 giugno 1981. Durante quel lungo periodo, numerosi tentativi di salvataggio si sono conclusi con esiti infruttuosi.

Questo tragico evento ha fatto la storia non solo per la sua gravità, ma anche per essere stato trasmesso in diretta per la prima volta nella televisione italiana. Un momento che ha lasciato un’impronta indelebile su tutti. Poco dopo, il Presidente della Repubblica Sandro Pertini, presente sul luogo del disastro e testimone diretto degli sforzi, ha risposto all’appello disperato della madre di Alfredo, Franca Bizzarri: evitare che si ripetesse mai più un simile caos durante un’emergenza, dove la coordinazione è essenziale. Così, è stata istituita la Protezione Civile, una decisione finalizzata a non ripetere gli errori che hanno portato alla tragica fine del bambino.

Alfredino si poteva salvare?

Alfredino poteva essere salvato? Impossibile dirlo. Ma, in un’intervista a Il Tirreno, Torello Martinozzi, testimone della tragedia del 1981, ha spiegato i motivi per cui, a suo avviso, si sarebbe potuto fare molto di più e meglio nelle operazioni di salvataggio.

Quando Torello Martinozzi giunse a Vermicino, nelle campagne prossime a Frascati, il piccolo Alfredino Rampi era già deceduto e il clamore mediatico si era dissolto. A lui, esperto minerario della Solmine, e ad altri venti minatori gavorranesi, spettò un compito meno vistoso ma assai più struggente: recuperare il corpo di quel bambino di sei anni che per tre giorni aveva tenuto con il fiato sospeso l’intera Italia.

Martinozzi non si era presentato come un eroe, bensì come un tecnico, e ora, riflettendo su quei momenti indelebili vissuti trent’anni prima, nel lontano 1981, racconta: «Arrivammo il quattro luglio, venti giorni dopo la tragica fine del bambino. La nostra missione era completare la galleria adiacente al pozzo, rimasta incompiuta dai soccorritori. Iniziammo a lavorare con il martello demolitore, rimuovendo terra e erbacce per creare il passaggio necessario». Un lavoro tipico per dei minatori, se non fosse che, dopo un paio di giorni, giunse un’altra, ancor più onerosa richiesta. «Il magistrato incaricato del caso ci informò che il nostro compito non si limitava alla realizzazione della galleria, ma includeva anche il recupero del corpo. Ciò richiese una settimana, e la mattina dell’11 luglio, intorno alle sette, riuscimmo finalmente a recuperare il corpo».

«Poteva essere salvato. Non era facile, ma poteva essere salvato», afferma Martinozzi. «Mi resi conto subito che il foro doveva essere praticato a una distanza maggiore, poiché le vibrazioni dall’approfondimento avrebbero potuto far scivolare il bambino ancora più in profondità».

Il senno di poi è sempre un giudice parziale, ma dal 10 giugno in cui Alfredino cadde nel pozzo al 13 giugno in cui venne dichiarata la “presunzione di morte” da parte del dottor Fava, il corpo del bambino era sprofondato dai 36 metri iniziali fino a oltre 60.

Oltre alle sfide logistiche, il motivo per cui «non era facile salvarlo» era legato a fattori ambientali. «Ma come potevamo lavorare in quelle condizioni? Senza nemmeno una recinzione che tenesse lontane quelle migliaia di persone, come potevamo ragionare con lucidità?». Già, come potevano i vigili del fuoco, i volontari, gli speleologi, circondati da migliaia di persone, mantenere la concentrazione? Una folla brulicante che, anche se trattenuta, faceva rumore. Una folla che si nutriva delle speranze alimentate dai sospiri di Alfredino e dei panini venduti dagli ambulanti. Tanto che sia la madre Franca che il Presidente Pertini dovettero richiedere il silenzio più volte. «Era impossibile mantenere la calma. Quando sono sceso io, non sapevamo nemmeno dove cercare il corpo».

Gli errori nelle operazioni di salvataggio

Il primo tentativo ha aggiunto ulteriori complicazioni alle già complesse operazioni di soccorso, rendendo ancor più ardua la situazione che via via diventava sempre più caotica. Una tavola, spessa circa due centimetri, è stata abbassata nel pozzo tramite una corda, con l’intento di permettere al bambino di aggrapparsi e essere tirato fuori. Tuttavia, le pareti irregolari del pozzo si restringevano man mano che si scendeva in profondità.

Così, anziché raggiungere Alfredo a una profondità stimata di 36 metri, la tavola si è fermata a una decina di metri sopra la sua testa, bloccata tra le asperità delle pareti. Peggio ancora, la corda utilizzata per calare l’improvvisato strumento si è spezzata improvvisamente, lasciando la tavola a intralciare i successivi tentativi di salvataggio, nonostante gli sforzi per liberare il passaggio.

Di conseguenza, i soccorritori hanno optato per un secondo approccio: scavare un secondo pozzo parallelo a quello in cui si trovava intrappolato Alfredino, al fine di raggiungerlo attraverso un tunnel. Ma anche questo tentativo ha aggravato la situazione.

Il secondo pozzo, largo 90 centimetri e profondo fino a raggiungere il bambino tramite un tunnel, è stato ideato diverse ore dopo la caduta di Alfredino, rallentato dalla necessità di portare attrezzature adatte per lo scavo.

Tuttavia, questa soluzione ha solo complicato ulteriormente il salvataggio. Gli scavi sono stati effettuati a soli due metri di distanza dal pozzo principale, senza considerare che le vibrazioni dell’escavatrice avrebbero potuto far scivolare Alfredino ancora più in basso. E così è stato.

Dopo aver scavato il tunnel orizzontale per raggiungere il pozzo principale, i soccorritori hanno scoperto che nel frattempo il bambino era scivolato ulteriormente, arrivando a una profondità di 60 metri. Solo dopo molte ore, grazie all’intuizione di un gruppo di minatori, è stata proposta l’idea di scavare più lontano dalla posizione di Alfredo. Il terzo pozzo è stato quindi scavato 15 metri più in là per evitare ulteriori cedimenti.

Non solo il secondo pozzo si è rivelato inutile e dannoso, ma ha anche comportato la perdita di ore preziose. Le stime dei tempi di scavo non avevano considerato la natura del terreno, come suggerito dalla geologa Laura Bortolani. Dopo aver superato gli strati più friabili, le escavatrici hanno incontrato uno strato roccioso, allungando le operazioni di oltre il doppio rispetto alle previste 12 ore.

A questo punto, una serie di errori aveva prolungato i tentativi di salvataggio. Solo in quel momento si è nuovamente valutata la possibilità di far scendere volontari nel pozzo, ma ormai era troppo tardi. Dopo oltre sessanta ore di attesa, decine di tentativi falliti, il caos organizzativo e la continua presenza di stampa e curiosi, Alfredino era ormai morto.