Dieci anni fa si apriva uno dei tanti dolorosi capitoli della storia del popolo degli yazidi, una minoranza etnica e religiosa che abita nel territorio del Kurdistan e in diverse regioni del Medio Oriente: con la nascita dello Stato Islamico inizia quello che ad oggi è l’ultimo genocidio riconosciuto dalle Nazioni Unite in quanto tale, la giornalista e scrittrice Claudia Ryan ha visitato nel 2015 il Kurdistan ed ha raccontato oggi a Tag24 della resistenza contro l’Isis e della lotta di un popolo per continuare ad esistere.

Le idee nate durante il viaggio sono state utili alla scrittrice per il libro ‘Hana la Yazida-L’Inferno è sulla Terra‘ che testimonia l’orrore degli anni in cui lo Stato islamico ha preso piede in Medio Oriente seminando morte e distruzione e la resistenza del popolo curdo. Grandi protagoniste di questa lotta contro gli estremisti islamici sono state le donne.

Genocidio degli Yazidi, Ryan: “Ci sono stati terribili massacri”

Il genocidio degli Yazidi sembra essere stato dimenticato pur essendo l’ultimo riconosciuto dalle Nazioni Unite, come ha già spiegato nel corso di un’intervista esclusiva l’attivista yazida Barakat. La giornalista Ryan ha raccontato a Tag24 di quei difficili giorni per gli yazidi e dei soprusi andati avanti per tutta la loro storia.

Nel corso del suo viaggio in Kurdistan la scrittrice ha intervistato le persone coinvolte nel genocidio che ha visto circa 5000 morti e 10mila persone ferite stando a dei dati dell’Onu definiti spesso troppo approssimativi. Sembra che infatti i morti provocati siano almeno il doppio.

Il viaggio nel Kurdistan nel 2015

D: Il genocidio perpetrato ai danni degli yazidi è l’ultimo riconosciuto come tale: che ricordi ha dal suo viaggio nel Kurdistan iracheno?

R: Io sono stata nel Kurdistan iracheno tra luglio e agosto 2015, e mentre ero a Duhok, il 3 agosto, ci fu la commemorazione di un anno di occupazione di Sinjar e della sua regione da parte dei Daesh. In quell’occasione l’ISIS uccise tutti gli uomini dagli 11 anni in su e tutte le donne considerante anziane (i loro corpi sono stati poi ritrovati in tantissime fosse comuni). Parliamo di circa 5mila persone. Ci sono foto raccapriccianti in internet, con tutti gli uomini distesi a terra per essere massacrati…
Gli yazidi, nella loro storia, hanno subito 73 genocidi.

Io sono andata per intervistare quelle donne che erano state prese prigioniere e, in vari modi, erano riuscite poi a riconquistare la libertà, ma mentre ero a Duhok (all’epoca era a 40 km dal confine con il cosiddetto “stato islamico”) ho conosciuto anche persone che erano riuscite a scappare proprio quel fatidico 3 agosto 2014. Volevo scrivere un romanzo sulle donne rese schiave sessuali e, per farlo, avevo bisogno di conoscere i luoghi, guardare la gente negli occhi, sentire i loro racconti, entrare in contatto con la loro cultura. Infatti poi è stato pubblicato da Edizioni San Paolo “Hana la yazida – L’inferno è sulla Terra”.

“I ricordi che ho di quel viaggio, perciò, sono tantissimi, forse potrei scrivere un secondo libro solo su quello. Posso dire che è stato un viaggio profondamente umano, ascoltare il vissuto delle diverse donne è stato come rivivere con loro momenti di una forte intensità emotiva, tragica. Era impossibile non piangere con loro e ogni volta, dopo un’intervista, ero profondamente scossa.
Queste donne vivevano tutte in tende all’interno dei campi organizzati dall’UNHCR per gli sfollati, meno una che era tornata a casa dai genitori che vivevano a Duhok“.

“Posso dirvi di Gulan, all’epoca aveva 45 anni ed era sposata con due figli di 15 e 19 anni. Ha perso tutti, l’hanno violentata molte volte, gli hanno spaccato i denti davanti per convincerla a convertirsi (quando sono tornata ho fatto una colletta e ho inviato i soldi a un’associazione locale, il Centro Jinda, che l’ha portata dal dentista); si è salvata perché una notte i Daesh, che erano venuti per approfittare sessualmente di lei e di altre donne chiuse in una casa, sono usciti di fretta per andare a combattere e l’ultimo si è dimenticato di chiudere la porta. Ovviamente sono scappate”.

“Oppure posso raccontarvi di Majida, anche lei aveva 45 anni, e ha visto uccidere il marito e il figlio sposato dalla finestra. L’hanno portata via con la figlia quattordicenne, il figlio di 7 anni e la nuora incinta. A lei hanno dato l’incarico di lavorare come cuoca, ma ha subìto il dolore di vedersi portare via la nuora quando questa partorì e la figlia, data in sposa a un capo Daesh: la rivide solo una volta, tutta vestita di nero. Per il dolore le venne un ictus, non fu curata e ora ha una emi paralisi. È stata liberata in uno scambio tra prigionieri”.

“Potrei andare avanti, parlando di altre donne, di tutte le età.
È stato interessante ascoltare anche come altri si sono salvati. Una cosa è certa: chi è riuscito a fuggire lo ha fatto subito, senza indugi. Incredibile è la storia di Sara, sociologa del Centro Jinda: lei era riuscita a scappare da Sinjar in auto, erano 23 persone tutte sulla stessa macchina, tra di loro una donna era incinta. In pratica tutta la famiglia allargata. Quando sono partiti si sono accorti che l’auto era in riserva… la benzina è bastata giusto per portarli in salvo e il giorno seguente la donna incinta ebbe il bambino.
Ricordo di essere rimasta sorpresa nel vedere tutti i terreni tra Duhok e il campo sfollati di Khanke completamente abbandonati. Era chiaro che precedentemente fossero poderi coltivati, la guida mi spiegò che la gente aveva smesso di prendersene cura da quando l’ISIS era alle porte.
Di quel viaggio, però, ho anche bei ricordi: la popolazione curda accogliente, i giovani che mi hanno fatto da guide e traduttori, i pranzi o cene passati nelle loro case a chiacchierare e a gustare cibi deliziosi“.

La lotta allo Stato Islamico

D: Perché lo Stato islamico ha preso di mira gli yazidi?

R: “Premetto che lo yazidismo è una religione, come il cristianesimo o l’islamismo. La loro etnia è curda, infatti nel Kurdistan convivono più religioni, anche se la maggioranza della popolazione è islamica sunnita.
Gli yazidi sono monoteisti, credono in un Dio e sette angeli, di cui il più potente è Malek Taus (vorrei far notare che anche nel cristianesimo crediamo in angeli, santi e nella Trinità).
I Daesh li ritenevano politeisti e come tali senza diritti, meno ancora dei cristiani o degli ebrei che hanno in comune con l’islam l’antico testamento“.

“In pratica gli yazidi sono stati attaccati perché l’ISIS aveva bisogno di donne. Dobbiamo considerare che l’esercito dello “stato islamico” era enorme a quell’epoca, e le donne musulmane non potevano essere toccate. L’intento dei Daesh lo si capisce dal modo in cui hanno proceduto: quando hanno attaccato Sinjar e la sua regione, si sono presentati con i pullman”.

“Prima hanno conquistato la città e i paesi, ucciso gli uomini, le donne anziane, e poi hanno caricato le altre donne e i bambini sui pullman. Stiamo parlando di circa 7mila donne. Da lì sono state portate soprattutto nelle scuole, in quel periodo vuote essendo estate, specialmente a Mossul e a Tal Afar, per essere poi scelte, smistate, vendute. Hanno creato veri e propri mercati delle schiave sessuali, ci sono ragazze comprate e vendute addirittura per 6 volte, le più belle scelte in anteprima per i capi Daesh”.

“Su internet c’è un video girato in uno di questi luoghi dove le povere ragazze yazide venivano vendute al miglior offerente. Le ultime ragazze salvate sono riuscite tornare a casa nell’agosto del 2023, dopo nove anni di prigionia accanto a uomini esaltati dell’ISIS. Le storie sono molteplici e incredibili. Ma dovremmo parlare anche dei 20mila bambini rapiti e cresciuti nelle famiglie dei Daesh, o negli orfanatrofi perché nati dalle violenze sessuali e perciò non riconosciuti”.

Dopo il genocidio: cosa è successo agli yazidi?

D: Cosa è successo dopo il genocidio? Dove è scappata la maggior parte di questa popolazione?

R: “Quando gli uomini dell’ISIS sono arrivati a Sinjar la popolazione, in preda al panico, ha cercato di scappare. Molti si sono rifugiati sul monte che sovrasta la città e porta lo stesso nome, ma si è rivelata una trappola perché sono rimasti bloccati lì per mesi, e l’inverno in Kurdistan è parecchio freddo. Altri sono scappati in auto, e chi ha avuto la fortuna di non essere intercettato è riuscito ad arrivare in territorio sicuro, difeso dai Peshmerga curdi“.

L’UNHCR ha organizzato dei campi, con tende per i nuclei famigliari, bagni, scuole, ambulatori medici e anche degli psicologi. Quando andai a visitare i campi di Khanke e di Sharia notai che le famiglie avevano l’auto e la coprivano con teli per proteggerla: era tutto quello che gli era rimasto dalla fuga dalle loro case.

Oggi sono ancora in 157mila nei 23 campi in Kurdistan iracheno, ma entro la fine di luglio sembra che siano obbligati a lasciarli e tornare a Sinjar, dove però mancano infrastrutture e servizi e questo potrebbe rendere la situazione di queste persone ancora peggiore. Per incoraggiare il loro ritorno il governo iracheno ha annunciato un pacchetto d’aiuto di circa 3000 dollari per famiglia, prestiti senza interessi per aprire un’attività e altri tipi di aiuto, ma bisogna pensare che l’area di Sinjar è stata pesantemente bombardata dopo la conquista da parte dell’ISIS, e gli stessi Daesh hanno distrutto l’80% delle infrastrutture pubbliche e il 70% delle case civili“.

In pratica le persone hanno perso tutto, compresa la casa. Tornare a Sinjar significherebbe, secondo Human Rights Watch, andare incontro a una situazione altamente instabile e dove il crimine potrebbe prendere il sopravvento. Anche l’ospedale di Sinjar non è ancora stato ricostruito e la situazione delle scuole sembra anch’essa drammatica. Inoltre, a febbraio di quest’anno, ancora nessuno aveva ricevuto il compenso richiesto.

Il ruolo della donna nella resistenza allo Stato islamico

D: È interessante il ruolo della donna nella cultura yazida: di fatto c’è una parità di genere in questa cultura?

R: Quando sono andata in Kurdistan iracheno ho avuto a che fare con molte giovani donne curde, anche di religioni diverse. Le giovani islamiche, ad esempio, decidevano se coprirsi i capelli con un foulard oppure lasciarli liberi. Ho trovato donne molto in gamba e intraprendenti.
Tradizionalmente la donna curda era subordinata all’uomo e il loro ruolo era legato alla famiglia, ma con i tempi moderni la sua posizione sta cambiando. Nell’esercito dei Peshmerga, che significa “di fronte alla morte”, troviamo sia soldati uomini che donne, e questo loro coraggio è stato riconosciuto dalla società. Alcune ragazze yazide prese prigioniere dai Daesh e poi fuggite, si sono unite ai combattenti. Tra l’altro per un miliziano dell’ISIS essere ucciso da una donna era particolarmente spaventoso, perché invece di finire in paradiso con 72 vergini, finiva dritto all’inferno.
Se ci sia effettivamente una parità di genere non lo so, ma questa, ahimè, non l’abbiamo ancora completamente conquistata neppure qui.

La preoccupazione per il futuro

D: Nel corso della guerra al Califfato tutti i curdi hanno preso le difese della minoranza religiosa yazida. Oggi questo popolo affronta le minacce di Ankara e di altri nemici dopo aver dato un contributo al ridimensionamento della minaccia islamista: in questo momento si può parlare di genocidio ai danni anche dei curdi?

R: “Durante la guerra al Califfato i Peshmerga hanno combattuto con coraggio e senza risparmiarsi. Sono stato un baluardo importante, non hanno difeso solo gli yazidi, che comunque sono curdi loro stessi, ma hanno difeso l’avanzata di un esercito che portava solo morte, distruzione, repressione. I curdi speravano di avere dei riconoscimenti internazionali, di poter essere appoggiati per avere una loro terra, ma non è andata così. Ricordiamo che il Kurdistan e stato diviso in quattro parti dopo la Prima guerra mondiale, spartendo il territorio tra Iraq, Iran, Turchia e Siria“.

“Il Kurdistan iracheno possiamo definirla una regione federale autonoma, con un suo parlamento.
Poi abbiamo il Rojava, nel nord-est della Siria, sul confine con la Turchia, che, di fatto, ha un’amministrazione autonoma dal 2012. È un Paese molto povero, isolato, circondato da forze ostili, come le truppe siriane del regime di Assad che occupano ancora diversi settori delle città principali. Nel 2018, quando la guerra con l’ISIS si era conclusa, il Rojava fu attaccato dalla Turchia con “l’operazione ramoscello d’ulivo”, una definizione che nasconde intenti opposti al significato del nome stesso”.

Malgrado, come abbiamo detto, i curdi ebbero un ruolo determinante per sconfiggere i Daesh, nessuno fece nulla, specialmente gli americani che, su ordine di Trump, portarono via le loro truppe da quell’area lasciando campo libero ai turchi. Questi conquistarono una striscia di terra larga 30 km, una zona cuscinetto, e l’attacco provocò un’altra ondata di profughi, che si diressero in Iraq. Diverse associazioni internazionali si prodigarono per realizzare immediatamente altri campi per ospitarli. Stiamo parlando di situazioni estreme di disperazione e di miseria.
Non so se possiamo parlare di genocidio ai danni dei curdi. Secondo l’Onu per genocidio si intendono ‘gli atti commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso’. Erdogan di sicuro vorrebbe farlo.

La minaccia dello Stato Islamico ancora forte oggi

D: Lo Stato islamico è ancora una minaccia? I governi locali cosa fanno a tutela di questa minoranza?

R: I Daesh sono sicuramente ancora una minaccia. Nei campi di prigionia curdi c’erano circa 6mila Daesh (dati del 2019), ma è fuori di dubbio che ci siano ancora cellule dormienti di miliziani in giro per l’Iraq e la Siria. Si sa che l’ISIS è attivo con base in Afghanistan: non dimentichiamo l’attacco che ha perpetrato a Mosca al Crocus City Hall lo scorso 22 marzo uccidendo 139 persone innocenti.
Mi spiace, ma non sono al corrente di cosa stiano facendo i governi locali per contrastare la minaccia dei miliziani del cosiddetto “stato islamico”. Comunque, se avessero voluto tutelare la minoranza yazida avrebbero potuto ricostruire seriamente ciò che era stato distrutto nella regione dello Sinjar.

Un genocidio ignorato: perché?

D: La vicenda degli yazidi in Italia sembra essere molto poco affrontata – nonostante sia l’ultimo massimo crimine internazionale – come mai?

R: “Quando si stava perpetrando il genocidio degli yazidi e la vendita delle donne come schiave sessuali, ricordo che Corrado Formigli aveva dedicato tutta una sua trasmissione a questo argomento, inoltre c’erano articoli online che venivano postati anche nei social. Io stessa ho scoperto questa vicenda proprio in questo modo, poi però ho notevolmente approfondito grazie a delle ricerche, finché non ho deciso di andare sul posto”.
“Anche quando Nadia Murad Basee, anch’essa presa prigioniera dai Daesh e poi fuggita, è diventata ambasciatrice ONU per la dignità dei sopravvissuti alla tratta di esseri umani e, nel 2018, ha vinto il premio Nobel per la Pace, si è parlato parecchio di questa problematica”.
“Malgrado ciò, quando vado a presentare il libro ancora quasi nessuno sa chi siano gli yazidi. Il punto è che siamo bombardati di informazioni e, a meno che per qualche motivazione mediatica un argomento non prenda il sopravvento in modo determinante, le notizie scivolano via, anche le più devastanti. Attenzione: non dico sia giusto, sto semplicemente dicendo che è una realtà”.
“Vorrei aggiungere una cosa: 430 di queste donne yazide, di cui abbiamo raccontato le tragiche vicende e speso parole indignate per la sorte che avevano dovuto subire, nel 2021 sono state respinte alla frontiera europea tra Polonia e Bielorussia e rispedite nel Kurdistan iracheno. Volevano cercare di dare una svolta alla loro vita”.

D: Esiste una comunità yazida in Italia?

R: “Non una vera e propria comunità, che io sappia. I due ragazzi e la ragazza yazidi che avevano lavorato per noi come guide a Duhok ora sono in Germania”.