Quasi un milione di persone in fuga dalle violenze delle autorità del Myanmar, costrette a lasciare le proprie case per evitare le incursioni militari che nelle storie dei testimoni finiscono con stupri, rapimenti, arresti e deportazioni: ci sono ancora riserve nel parlare di genocidio dei Rohingya – una minoranza etnica di religione mussulmana della Birmania – eppure gli elementi per riconoscere questo sterminio di massa sembrano esserci tutti.

Nulla di nuovo sul fronte orientale, purtroppo. Il conflitto tra birmani e Rohingya va avanti da secoli, da prima che sorgessero le dinastie Taungù e Konbaug passando per la colonizzazione inglese fino ai giorni nostri.

Paola Morselli è un’analista geopolitica dell’Istituto per gli studi di politica internazionale e si occupa del sudest asiatico. Oggi Morselli ha spiegato a Tag24 l’origine della persecuzione dei Rohingya e a cosa potrebbe portare la crisi innescata dal governo di Naypyidaw tra il 2016 ed il 2017.

Myanmar, il ‘genocidio’ dei Rohingya: cosa succede?

Il 2016 è partito come un anno carico di speranze per Rohingya ed è terminato con l’epilogo più tragico di tutti. La nomina del premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi a Consigliere di Stato sembrava poter all’inclusione della minoranza Rohingya in Myanmar o per lo meno a dei passi in avanti e al riconoscimento di alcuni diritti che mancano.

Il 9 ottobre 2016 inizia una vera e propria persecuzione da parte dei militari nei confronti della popolazione Rohingya, le forze armate hanno organizzato rastrellamenti nello Stato del Rakhine. L’esito dell’azione voluta da Naypyidaw è sotto gli occhi del mono intero: decine di migliaia di donne sono vittime delle violenze dei militari, di tanti villaggi restano solo le ceneri e le rovine delle case e 700mila persone sono scappate verso il Bangladesh o altri Stati limitrofi. Alcuni migrano addirittura in Arabia Saudita.

La maggioranza della popolazione resta in Myanmar ma dopo il colpo di Stato del febbraio 2021 le persecuzioni sembrano peggiorati ed oggi la popolazione Rohingya resta minacciata dalle azioni militari ed è costretta a vivere in campi profughi. Il motivo di queste azioni? Un contrasto di origini religione: i Rohingya sono una minoranza mussulmana in Paese a maggioranza buddhista, la paura dei vertici di Naypyidaw è sempre la stessa: il rischio di radicalizzazione e il timore per azioni terroristiche.

L’intervista: si può parlare di genocidio?

Ma ad oggi possiamo parlare di genocidio? Per ora non è stato ancora riconosciuto anche se ci sono tutti gli elementi a disposizione per parlarne. Il 12 luglio 2021 il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha adottato una risoluzione che condanna le violazioni dei diritti umani da parte dell’esercito birmano contro i Rohingya e altre minoranze. Una presa di posizione tardiva che da sola non basta.

Con Paola Morselli, analista geopolitica di Ispi, abbiamo ripercorso la storia e i motivi di cosa sta accadendo nel sudest asiatico.

Si può effettivamente parlare di genocidio?

“Tali definizioni sono complicate. I Rohingya sono una minoranza etnica mussulmana in un Paese a maggioranza buddhista che non viene riconosciuta dallo Stato centrale, parliamo di centinaia di migliaia di persone che non hanno la cittadinanza. Questo costituisce un problema perché ai Rohingya mancano i diritti che la cittadinanza attribuisce ad una persona“.

“⁠Esistono testimonianze di scontri tra popolazioni musulmane e birmane risalenti anche a centinaia di anni fa. Le violenze sono presente da tempi immemori, anche durante l’occupazione britannica si sono consumato scontri. Per poche decine di anni dopo la colonizzazione è stata data la cittadinanza ai Rohingya per toglierla nuovamente nel 1982.”

“Negli anni le violenze sono aumentate ed è cresciuto il sentimento di risentimento verso il Myanmar. Tra il 2016 e il 2017 c’è stato l’apice di questo conflitto: oltre 700mila persone sono scappate dalle persecuzioni del Paese rifugiandosi tra Bangladesh, Malesia ed Indonesia. In quegli anni noi popolazione mondiale abbiamo ‘scoperto’ il Myanmar a causa della pulizia etnica. La situazione non è migliorata dopo il 2017 anzi il colpo di Stato ha peggiorato le cose: non si riconosce la popolazione e proseguono le violenze“.

Potenze straniere e genocidio: c’è correlazione?

Come viene perpetrato questo genocidio?

“Le persone vengono chiuse nei campi profughi. Si creano vere e proprie aree destinate esclusivamente ai Rohingya: chiunque voglia spostarsi dovrà chiedere un permesso alle autorità, spesso i Rohingya si muovono attraverso canali. Secondo testimonianze, le autorità birmane tengono sotto controllo anche le nascite perché vedono questo popolo come una ‘minaccia mussulmana‘.”

“La più grande violenza resta la privazione della cittadinanza. Senza di essa non hai accesso alla sanità, alla scuola e non hai la possibilità di votare. I Rohingya vengono riconosciuti come stranieri o migranti del Bangladesh. Il problema è che nemmeno il Bangladesh li riconosce come cittadini.”

Il ruolo di Aung San Suu Kyi

Ci sono potenze straniere dietro quello che avviene ai Rohingya?

“Molto difficile da dire. Le potenze estere non hanno parte attiva nel genocidio ma è anche vero che nulla fanno per fermare queste azioni da parte delle autorità birmane. Se la Cina tra il 2016 e il 2017 fosse intervenuta, avremmo potuto vedere uno svolgersi diversi del conflitto, ma Pechino tradizionalmente evita di interessarsi agli affari interni esteri a meno che non ci siano vantaggi economici”.

La Cina durante il colpo di Stato non è intervenuta in modo netto, probabilmente con una presa di posizione decisa le cose sarebbero cambiate. Pechino si limita a chiedere una descalation: lo Stato del Rakhine dove vive la popolazione Rohingya ha un porto fondamentale oltre a una serie di gasdotti. Gli interessi economici restano forti”.

Aung San Suu Kyi ha fatto poco per risolvere questa situazione?

“Quella dei Rohingya è una situazione molto complessa e non è risolvibile da una singola amministrazione nel breve o medio periodo. Aung San Suu Kyi non ha fatto quello che ci si aspettava da una vincitrice del Nobel per la Pace: spesso si è rivolta alla popolazione Rohingya chiamandoli ‘immigrati dal Bangladesh'”.

“Affermazioni del genere sono un insulto per i Rohingya. Non è stata la prima volta però: in altri casi si è rivolta in maniera sbagliata o offensiva reputandoli come qualcosa di diverso. Non ha fatto grandi politiche di integrazione, è accusata di non aver agito di fronte alle azioni militari: non è stato quel faro di egualità per le varie etnie.”

Il trattamento in Bangladesh e negli altri Paesi

I Rohingya come vengono trattati nei Paesi dove sono immigrati?

“Anche in Bangladesh non sono trattati particolarmente bene. Vivino in campi per rifugiati sovraffollati. Le tensioni sono aumentate di recente anche a causa di alcuni gruppi Rohingya particolarmente attivi anche in maniera negativa: negli ultimi mesi il conflitto si sposta nel Rakhine e molti Rohingya sono stati costretti a prendere le armi per combattere con l’esercito regolare. Grazie alle organizzazioni internazionali ci sono state tutele ma negli ultimi anni sono scoppiati molti conflitti e le risorse destinate alla popolazione non sono arrivate.”

“Negli altri Paesi la situazione è diversa. In Malesia, Singapore ed Indonesia – un po’ meno in Thailandia – ci sono state molte meno tutele nei confronti dei Rohingya. Sono trattati come persone senza uno Stato quindi sul piano legale ci sono importanti difficoltà. C’è poi l’aggravante che una buona parte delle persone che fuggono sono minori.”

“I Rohingya hanno problemi anche per quanto concerne il livello di istruzione che spesso è molto basso e li rende non qualificati per tanti lavori. Ci sono Paesi che preferiscono non accogliere a quel punto, in alternativa queste persone vengono impiegate per lavori molto umili e senza tutele.”

Il rischio di nuovi conflitti

L’Asia è ricca di minoranze etniche e religiose. Non c’è rischio di altri genocidi in Oriente? Mi viene da pensare agli uiguri o a quello che succede a confine tra India e Pakistan…

“Proprio questi sono i due casi più clamorosi. Una situazione molto simile a quella dei Rohingya avviene in Xinjiang dove vivono gli uiguri. Secondo alcuni report devono imparare la lingua, sono vittime di deportazioni mentre Pechino nega ogni violenza. Similmente a Rohingya, anche questa popolazione viene trattata come aliena“.

“In Asia ci sono tensioni religiose che rischiano di esplodere. Ad esempio, in Malesia ed Indonesia la popolazione è a prevalenza musulmana. Spesso si tratta di Paesi che sono emersi ora nel panorama internazionale e continentale. Non è da escludere che una componente religiosa possa entrare nelle trattative di questi paesi con India o Cina. Sarà difficile tenere poi sotto controllo le frustrazioni di questi popoli. ⁠Finché questi conflitti, come quello dei Rohingya,  sono poco ‘trattati’ difficilmente si avrà una contromossa da altri Paesi per una cessazione delle ostilità. ⁠In questi casi esasperati di conflitto e emarginazione, non sono da escludere possibili futuri episodi di terrorismo in ultima risorsa.”

Perché conflitti sono così trascurati?

“Purtroppo non vendono o non fanno visualizzazioni. Sono Paesi poco conosciuti e in una zona non economicamente centrali nel mondo. Nel frattempo sono scoppiati altri conflitti come quello a Gaza che ha ‘offuscato’ quello che sta succedendo in Ucraina, figuriamoci gli altri”.