Lo scorso 30 maggio è uscito al cinema “The Penitent” il nuovo film diretto da Luca Barbareschi, che interpreta anche la parte del protagonista. La pellicola è basata su un testo teatrale del drammaturgo David Mamet, che per la scrittura di questo soggetto si è ispirato al caso del 1969 di Tatiana Tarasoff.
“The Penitent”, recensione
New York.
Il dottor Hirsch (Luca Barbareschi) è uno stimato psichiatra di successo ormai giunto quasi alla fine della sua carriera. Ha tardivamente scoperto la vocazione per la religione ebraica nella quale si è immerso, come tuffandosi nelle acque profonde di un mare aperto. A lungo ha studiato la Torah, punto per punto, sotto la guida spirituale del suo rabbino. Ma sentire, forte e tonante, il richiamo della fede che lo ha avvicinato a Dio è stato come imboccare un sentiero che lo ha allontanato da tutto il resto: quella chiave di lettura così diversa dal modo in cui sino ad allora aveva percepito la vita ha sconvolto radicalmente ogni cosa, a partire dal suo matrimonio. La moglie Kath (Catherine McCormack) ha deciso di non seguirlo in questo percorso smettendo, metaforicamente, di tenergli la mano osservandolo mentre si allontanava lungo un cammino che non riusciva proprio a comprendere.
Il legame che un tempo li univa si è trasformato dapprima in un silenzio opprimente, nel quale entrambi hanno imparato a esistere a prescindere dalla presenza dell’altro, e poi in una guerra fredda che ha distrutto ogni cosa a partire dal loro talamo nuziale, riducendolo in macerie. Il loro amore finito in cenere, precipitato in un inferno di fuoco e fiamme, bruciato dagli odi e dai rancori più insensati. Ed è proprio qui che Dio si manifesterà, ironico e beffardo, gettando sul capo del suo nuovo fedele un arduo fardello, come a voler mettere alla prova il suo credo appena scoperto: uno dei suoi pazienti ha commesso una strage sparando a 13 persone.
La difesa del ragazzo chiederà al dottor Hirsch di testimoniare in suo favore, puntando sull’infermità mentale, ma lui si rifiuterà e, a questo punto, i legali dell’imputato cercheranno di scaricare la responsabilità su di lui affermando che il rifiuto a testimoniare si baserebbe su un pregiudizio omofobo, in quanto il suo ex paziente si è dichiarato gay e il dottore, ormai ebreo, ne è disgustato perché le sacre scritture condannano l’omosessualità. Ma nonostante quest’accusa sia ben distante dalla realtà dei fatti, il dottore, e di conseguenza sua moglie, verrà risucchiato in un vortice di calunnia e diffamazione mediatica che metterà a soqquadro tutta la sua esistenza che, rapidamente, crollerà finendo in pezzi come un vecchio palazzo dopo un terremoto.
Lo sconvolgimento della sua quotidianità, esistenziale e lavorativa, nonché del suo matrimonio, lo indurranno a cambiare idea spingendolo a difendere il ragazzo in tribunale? Riuscirà a mantenere salda la sua fede in Dio senza vacillare nella disperazione?
“The Penitent”, critica
Luca Barbareschi, attore protagonista e regista di quest’opera cinematografica, porta sul grande schermo un testo teatrale dello sceneggiatore David Mamet intitolandolo “The Penitent”.
Tradotto dall’inglese “il penitente” questo dramma sembra davvero rappresentare un uomo alle prese con una punizione biblica quasi messo alla prova per non cedere alla tentazione di scendere a un compromesso mostruoso, come quello di difendere qualcuno che ha compiuto un massacro, per poter egoisticamente vivere in pace. Al protagonista viene addirittura chiesto dal Pubblico Ministero di poter visionare gli appunti delle sedute tenute col paziente, contravvenendo al segreto professionale, per controllare se ci sia qualche annotazione a proposito della sua omosessualità e qualche commento giudicante a riguardo.
Come in ogni processo mediatico anche in questa storia si sposta l’attenzione da un fatto certo, il crimine commesso, alla spettacolarizzazione del dibattimento giudiziario tentando di trovare a tutti i costi un’antagonista da condannare in pubblica piazza. Una specie di caccia alle streghe, come nel Medioevo. Ma qui non c’è niente da interpretare, nulla da andare a cercare scavando in un presunto torbido scenario di omofobia e pregiudizio religioso; una persona ha sparato a una folla di gente commettendo un’ecatombe. Può mai esserci una giustificazione plausibile a un gesto simile? Ed è proprio su questa domanda che si basa l’intera sceneggiatura che sembra una lezione saggistica, di etica, di legge, un dibattito filosofico all’ultimo sangue tra Socrate e Platone. Difatti potrebbe ricordare una tragedia greca, a esclusione del dettaglio che è ambientato nei giorni nostri.
David Mamet ha preso spunto per la stesura di quest’opera da un caso di cronaca realmente accaduto nel 1969, negli Stati Uniti: l’omicidio di Tatiana Tarasoff, uccisa dal compagno di college Prosenjit Poddar dichiarato poi schizofrenico. I genitori della vittima fecero causa allo psichiatra che aveva in cura l’assassino, per non averli avvertiti degli intenti omicidi del paziente nei riguardi della ragazza.
Questo film possiede una fotografia molto affascinante che mette in risalto i colori dai contrasti cupi, che incarnano perfettamente la drammaticità dell’argomento trattato. Tra psichiatria, teologia, filologia, filosofia, giurisprudenza, etica, morale, questo lungometraggio si addentra in un’ampia discussione sulla natura umana e religiosa. Purtroppo però i dialoghi sono spesso caratterizzati da un linguaggio eccessivamente aulico, che rende il tutto a tratti forzato e non fa percepire fino in fondo il pathos dei personaggi, lasciandoti a volte con un certo senso di smarrimento non facendoti capire dov’è che questa narrazione voglia arrivare. Il nodo si scioglie poi sul finale, non così tanto inaspettato, facendoti ritrovare il filo della faccenda.
Quel che dispiace è che la buona regia di Barbareschi di un ottimo soggetto cade nella megalomania narcisista di un attore che ama mettersi in mostra. Ci sono dei punti in cui il film risulta come una sorta di atto monumentale per mostrare dei primi piani di Barbareschi stesso e farci sentire la sua voce, al di là del contenuto. Un po’ come quando si utilizza una gran quantità di vocaboli eruditi per la costruzione di una frase, che però non esprime nulla. Devo purtroppo ammettere che questa vanità, che traspare vivida, ha guastato un po’ un’ottima pellicola.
Per tanto mi trovo costretta a dargli soltanto tre stelle su cinque.