Nunzia Munizzi e Barbara Sellini avevano rispettivamente 10 e 7 anni quando, il 3 luglio del 1983, furono trovate senza vita – con i corpi semicarbonizzati – nel greto di un torrente del rione Incis di Ponticelli, un quartiere di Napoli. L’autopsia stabilì che erano state uccise dopo essere state abusate sessualmente e torturate: da chi, a distanza di tanti anni dai fatti, non è stato ancora stabilito con certezza. Ecco perché.

Che cosa è successo a Ponticelli nel 1983: il massacro in cui morirono le due bambine Nunzia Munizzi e Barbara Sellini

Del duplice omicidio sono stati incolpati tre ragazzi all’epoca poco più che adolescenti: Ciro Imperante, Giuseppe La Rocca e Luigi Schiavo. Ad incastrarli, la testimonianza del fratello di un’amica delle due bambine, che agli inquirenti, nel corso degli almeno dieci interrogatori a cui fu sottoposto, disse di averli incontrati la sera dei fatti in discoteca e di aver saputo direttamente da loro cosa avevano fatto.

Testimonianza che a distanza di tanti anni è stata giudicata da molti inattendibile: l’ipotesi è che Carmine Mastrillo, questo il nome del teste, sia stato spinto a fare i loro nomi dal collaboratore di giustizia Mario Incarnato, con il quale era recluso alla Caserma Pastrengo. Il motivo? Fare in modo che il caso venisse chiuso alla svelta, evitando problemi alla camorra, che avrebbe potuto risentire della massiccia presenza di forze dell’ordine e giornalisti sul territorio.

Non solo contro i presunti “mostri di Ponticellinon ci sarebbero prove; non si riesce neanche a capire come avrebbero fatto, in un arco temporale compreso tra le 19.30 (orario dell’ultimo avvistamento delle due bambine, datato 2 luglio 1983) e le 20.30 (orario in cui i tre si sarebbero presentati in discoteca, lo stesso giorno), ad abusare – perlopiù alla luce del sole – di Nunzia e Barbara, seviziandole e uccidendole per poi tornare a casa a lavarsi e riuscire.

È questo il motivo per cui gli uomini, usciti dal carcere nel 2010 dopo aver scontato 27 anni, stanno cercando di far riaprire le indagini sulla morte delle due bambine con l’obiettivo di arrivare alla revisione del processo che li ha giudicati colpevoli.

Le prime indagini sul delitto

A crederli innocenti sono in tanti, incluso lo scrittore Roberto Saviano, che lo scorso gennaio ha preso parte all’incontro in cui alla Camera la deputata Stefania Ascari ha chiesto alla commissione parlamentare Antimafia di riprendere in mano il caso.

Dopo lo scioccante ritrovamento dei cadaveri delle due bambine nei pressi di una sopraelevata in costruzione, i sospetti, all’epoca, si concentrarono subito su un venditore ambulante della zona, un uomo pregiudicato e semianalfabeta che in paese era noto con il nome di “Maciste” per via della sua corporatura robusta.

Si faceva chiamare “Luigino” e un’amica di Nunzia e di Barbara aveva raccontato che le due avrebbero dovuto incontrare, il giorno in cui furono uccise, un certo “Gino”, che aveva promesso loro un gelato; possedeva, inoltre, una Fiat Cinquecento di colore verde (con un fanalino rotto e la scritta “vendesi”) uguale a quella che un’altra bambina aveva giurato di aver visto a pochi passi dalla pizzeria in cui quella stessa sera aveva incontrato le vittime.

Ma era anche solito frequentare la zona in cui loro corpi furono rinvenuti semicarbonizzati; a suo dire, anzi, si divertiva a portarci i minorenni del posto. Gli indizi di colpevolezza a suo carico sembravano essere diversi; poi, tutto ad un tratto, i magistrati sposarono l’altra tesi, quella secondo la quale “il massacro” era stato commesso dai tre ragazzi, che ora, da uomini liberi, reclamano giustizia.