Non esistono dati certi, ma una serie di indicatori mostrano che negli ultimi anni è cresciuto il numero degli italiani che non si cura, che non svolge adeguate attività di prevenzione o che, addirittura, non cura in modo soddisfacente patologie insorgenti o presenti. I motivi di questa preoccupante situazione sono essenzialmente legati alle lungaggini delle procedure nella sfera pubblica della sanità e agli alti costi della medicina privata. A loro volta queste realtà rinviano ad una serie di altre problematiche, come il limitato numero di medici, all’origine di molte lungaggini, e a una legislazione che disincentiva in vario modo soprattutto i giovani medici. Ne parliamo col Dott. Flavio Civitelli
In aumento il numero degli Italiani che rinuncia alle cure, intervista al Dott. Flavio Civitelli (Anaao)
D) Sempre più persone rinunciano alle cure, com’è la situazione italiana? Avete dati in merito?
R) Purtroppo sono milioni i cittadini italiani che rinunciano alle cure perché non accessibili. Questo è un dato estremamente preoccupante per diversi motivi. Va ricordato che la sanità privata, non risolve il problema. Spesso, infatti, il privato si occupa di prestazioni facili, a bassa complessità, o cerca di proporre prestazioni a pagamento, con incentivi mirati o di difficile implementazione, per i casi più complessi. Quindi, alla fine, il cittadino trova lo stesso muro, cioè la lista di attesa lunga che trova nel sistema pubblico, la trova anche nel sistema privato con l’aggravante di prestazioni a pagamento.
D) Le lungaggini maggiori da cosa sono causate? Da una mancanza di personale o ci sono altre cause?
R) Il primo punto è la gravissima carenza di personale. Questo colpisce diffusamente la maggioranza delle strutture. Certo, a livello universitario o nei grandi ospedali della capitale, il personale c’è, ma queste strutture possono garantire servizi solo ad una minoranza dei cittadini. Abbiamo quindi da un lato i grandi ospedali con organico e professionisti adeguati, dall’altro la maggioranza di ospedali periferici che, invece, hanno pochi medici, strutture e personale limitato con conseguente scarsa produttività.
D) Può darci degli esempi specifici a riguardo?
R) Certamente. Parliamo di prestazioni ostetrico/ginecologiche. I ginecologi, oltre a seguire le pazienti per tutto il periodo gestazionale, sono responsabili per la sala parto, la chirurgia ginecologica dalle forme più semplici a quelle più complesse. I professionisti sono sotto organico e insufficienti a coprire non solo le mansioni di routine ma soprattutto prestazioni aggiuntive, urgenze, e turni di guardia. Inoltre, queste ultime prestazioni sono pagate poco e tassate tantissimo. In effetti il lavoro straordinario è spesso tassato al 50%. Difficile quindi trovare personale disposto. Diversa cosa invece sono le prestazioni “a gettone”, doppiamente retribuite e con una tassazione del solo 15%. C’è a quanto pare, la volontà fiscale di sfavorire i dipendenti pubblici. C’è un disincentivo verso il dipendente pubblico penalizzato da retribuzione e tassazione per gli straordinari, e un incentivo per il “gettonista” esterno.
D) Quindi chi fa straordinario viene addirittura penalizzato. Vi sono soluzioni?
R) Chi fa straordinario, lo fa per attaccamento etico e per dare una mano ai colleghi o per salvare il servizio e continuare a dare risposta ai cittadini. Invece, il gettonista è libero, ha tutta la sua giornata libera, lavora sei turni al mese, si porta a casa 7-8.000€, quindi molto più di quanto uno che lavora in ospedale. Pertanto, sarebbe opportuno che, almeno nelle prestazioni aggiuntive, venga riconosciuta la stessa fiscalità e un compenso pari a quello che le stesse aziende praticano agli esterni che vengono a partita Iva. Non per dare un vantaggio, ma per togliere uno svantaggio al sistema pubblico, che ha bisogno di avere professionisti esperti, affidabili, legati all’azienda e legati alla loro sede operativa, al loro ospedale e che con passione garantiscono a 360° il servizio. Ad aggravare il quadro vi sono poi i costi aggiuntivi di polizze per la responsabilità civile e penale sulla sanità che un privato difficilmente sostiene a livelli così elevati.
D) Le nuove proposte dell’autonomia differenziata causerebbero ulteriori danni?
R) Già adesso c’è una discrepanza enorme tra una regione e l’altra per il rapporto medico/numero di abitanti. Ovviamente le regioni del Sud sono quelle che possono sembrare inefficienti, ma hanno molti meno dipendenti per abitante. Inoltre, il paziente del sud che “migra” al nord causa uno spostamento delle poche risorse che dal Sud, per compensazione, vengono inoltrate al Nord. Quindi, ad esempio, se io in Lombardia faccio la prestazione ad un paziente della Calabria, la Calabria deve pagarmi la prestazione. C’è una migrazione di pazienti e di risorse economiche, e quindi, quella sanità non si risolleverà mai. La soluzione non è tanto andare avanti verso l’autonomia, ma ritornare ad un maggior controllo centrale.
D) Al momento, invece, le liste d’attesa così lunghe quali visite, quali esami riguardano?
R) Tantissime, la diagnostica per immagine soprattutto. Tranne le radiografie, per tutte le altre bisogna aspettare: risonanza, doppler, ecodoppler, ecografie. La gastroenterologia, quindi, le endoscopie, ha dei tempi molto lunghi. Lunghissima è la visita allergologica.
D) Ma parliamo di tempi di attesa di mesi o anche di periodi più ampi?
R) Mesi, anche se in qualche caso limite si sente parlare di 1 anno e mezzo. Io spero siano casi limite, perché non ci sono dati precisi dagli ospedali. Per la totalità dei casi, la risorsa umana è molto inferiore al carico di lavoro, per cui c’è una richiesta continua dal territorio. Si richiedono inoltre prestazioni, test, controlli a volte in maniera inappropriata.
D) È anche una questione di infrastruttura perché siamo carenti?
R) Sicuramente come lei sa il PNRR dovrebbe migliorare la qualità delle prestazioni, dell’efficienza organizzativa del territorio, che ad oggi è uno dei principali motivi del flusso inappropriato verso l’ospedale, a cominciare dai pronto soccorsi e dalle prestazioni dei lavoratori pubblici e diagnostici.
D) È perché stanno chiudendo diverse guardie mediche e diversi pronto soccorsi?
R) Se lei oggi chiama il 118, i tempi si sono dilatati rispetto al passato e spesso e volentieri non arriva il medico, ma l’infermiere, che non è in grado di fare una diagnosi, anzi non è in grado giuridicamente e professionalmente di fare una diagnosi. Anche qui, c’è stata una spoliazione spaventosa sul territorio per quanto riguarda la convenzione di dipendenza del 118 e della guardia medica. Quest’ultima, ormai, è abbandonata a se stessa, nel senso che non hanno un responsabile, non hanno una guida, non hanno protocolli operativi, non hanno mezzi e spesso, non hanno strumenti diagnostici o terapeutici tra le mani. Quindi, proprio la visita è fatta con le mani e con un fonendoscopio. Non è mai stata implementata o resa più efficiente, salvo rare eccezioni. La mancanza di strumentazione penso possa risolversi con finanziamenti mirati.
D) Per la mancanza di personale, non si potrebbe lavorare sugli studenti? Sulle scuole di specializzazione per esempio.
R) Anche qui è un cane che si morde la coda. Per molti anni abbiamo avuto pochi posti, circa 6.000 all’anno mentre ne servivano 12.000 e si è creato il famoso “collo di bottiglia. Ora che sono 16.000 all’anno a laurearsi, assistiamo a un altro fenomeno, cioè che i giovani medici laureati hanno l’ambizione di lavorare bene e fare un lavoro che sia gratificante per loro e quindi rinunciano ad alcuni tipi di specializzazioni, come la medicina di pronto soccorso, l’anatomo-patologia, la medicina di laboratorio, medicina interna e chirurgia generale. Quindi anche discipline che una volta erano nobili ora non sono più ambite. Questo fa sì che ci si domandi: “Che facciamo?” e la risposta è: “Facciamo laureare più dottori, così qualcuno che farà quelle specializzazioni ci sarà”. Purtroppo, alcune specializzazioni non attraggono più i neolaureati.
D) Queste sono problematiche tipiche della Sanità?
R) Purtroppo no. È una problematica tipica di molte professioni. Ad esempio, molti giovani fanno scienze economiche col desiderio di diventare manager, convinti di andare all’estero. Vanno in Germania, Inghilterra, Francia, Spagna. Lo stesso stanno facendo i medici a migliaia, a decine di migliaia. Perché oggi, se sei di Roma è più facile lavorare a Berlino piuttosto che lavorare magari in qualche ospedale sperduto nel Viterbese. In più, all’estero c’è un sistema formativo che gratifica i giovani colleghi e che è molto più moderno. Noi siamo ancora legati a vecchie modalità universitarie, per cui ci vogliono trent’anni prima che ti mettano un bisturi in mano. Al contrario, all’estero, il collega viene valorizzato e seguito in quanto risorsa, quindi, ci sono gli ospedali di formazione, e dopo 4-5 anni formativi, sai fare.
D) Quindi è un problema tipico del nostro mondo del lavoro?
R) I giovani colleghi italiani non vogliono fare lavori pessimi, malpagati, dove si soffre e dove non esistono domeniche libere, dove trascuri la famiglia. Per cui vanno dove si vedono valorizzati, il rispetto per la persona è più alto e i loro diritti sono riconosciuti. Quindi non è soltanto un discorso economico, è un discorso di qualità dell’offerta lavorativa dal punto di vista economico e professionale. È chiaro che oggi soffriamo un’inflazione di medici, i nostri governanti hanno pensato a laurearne a tonnellate, intasando tutte le università, perché poi non c’è posto per tutti e squalificando la formazione, per la specializzazione.
Poi, ci sono anche gli interessi delle Università ad allargare i loro iscritti ecc. e, invece di riguardare la programmazione sui fabbisogni e la qualità, mirano a riempirsi di iscritti e fare un po’ più di soldi. La soluzione, quindi, sarebbe fare una programmazione corretta, gratificare gli studenti, i medici e gli specializzandi a fare i lavori meno interessanti, più disagiati. Per esempio, in Germania, chi lavora negli ospedali centrali guadagna meno di chi va in sedi di provincia o in ospedali disagiati. Il problema fondamentale è che la qualità del lavoro in Italia è scadente, in ospedale si sta male, si lavora male nella maggior parte degli ospedali, ci sono pochi dottori e non si riesce a fare dei turni decenti e la conseguenza principale è quella lista d’attesa infinita.
D) Quindi, curarsi sarà una prerogativa di una minoranza?
R) La privatizzazione del sistema sta portando a questo. Ma, a quanto pare, la privatizzazione è ancora un elemento sostenuto dalla nostra politica, da anni, non solo dall’attuale. Perché evidentemente ci sono degli interessi: abbiamo dei tetti alle assunzioni dei medici e degli infermieri del sistema sanitario pubblico, tetti molto rigorosi e vecchi di anni, mentre invece per il privato tutto questo non c’è, non ci sono finanziarie che mettono dei limiti. Questo sostegno del privato abbiamo visto che non porta nessun miglioramento né di qualità né di prestazioni.