L’avrebbero aiutata a partorire e a tenere nascosto il bambino al resto dell’equipaggio: per questo due colleghe della donna fermata per la morte del figlio neonato su una nave da crociera sarebbero ora accusate di concorso in omicidio volontario. A riportare la notizia è l’Agi. Si tratterebbe di due donne, una del Kenya e una del Sud Africa.

Fermate due colleghe della madre accusata di omicidio per aver lasciato morire il figlio neonato su una nave da crociera

Il tragico ritrovamento risale alla giornata di domenica 19 maggio. Stando a quanto ricostruito finora, sarebbero stati dei colleghi della donna a dare l’allarme, segnalando al capitano della nave da crociera di lusso Silver Whisper, battente bandiera delle Bamahas, la presenza di un neonato morto a bordo.

Il suo corpicino si trovava senza vita all’interno della cabina che la madre, con mansioni di cucina e di pulizie, divideva insieme a due colleghe: quando i carabinieri se ne sono accorti, dopo essere saliti con la collaborazione dei responsabili della nave, la donna, una 28enne di origine filippina, è stata soccorsa e trasferita in ospedale a Grosseto in stato di shock.

Sembra che abbia tenuto nascosta la sua gravidanza al resto dell’equipaggio; per essere certi della data di nascita del bimbo bisognerà aspettare l’esito dell’autopsia, che chiarirà anche le cause del suo decesso. Dai primi accertamenti effettuati non sarebbero emersi, sulla sua salma, segni di violenza.

Oltre alla madre – attualmente detenuta nel carcere di Sollicciano, a Firenze – sarebbero state fermate con l’accusa di concorso in omicidio volontario anche le donne di origine africana che dormivano insieme a lei: stando a quanto riporta l’Agi, che ne ha dato notizia, l’avrebbero aiutata a dare alla luce il bambino e poi a nasconderlo per evitare che venisse licenziata; secondo la difesa avrebbero adottato tutti gli accorgimenti necessari affinché non si facesse male in loro assenza.

Un caso che riporta alla mente quello di Alessia Pifferi

Il caso della 28enne ricorderà a molti quello di Alessia Pifferi, la donna di dieci anni più grande che da pochi giorni è stata condannata all’ergastolo per la morte della figlia Diana, di appena 18 mesi: nel luglio del 2022 la abbandonò nell’abitazione in cui vivevano a Milano per raggiungere l’allora compagno – a cui aveva detto di averla lasciata dai familiari -; quando tornò, sei giorni dopo, la trovò morta.

Sembra che la donna non si fosse accorta di essere incinta (o almeno così ha sempre sostenuto) e che poi abbia dato la bimba alla luce nel bagno di casa sua. Secondo l’accusa – che aveva chiesto ai giudici di riconoscerle il massimo della pena, come hanno fatto – la viveva come “un peso” alle sue relazioni amorose. Il consulente nominato dalla Procura, il dottor Elvezio Pirfo, è arrivato alla conclusione che al momento dei fatti fosse totalmente capace di intendere e di volere.

La difesa della donna, rappresentata dall’avvocato Alessia Pontenani, pensa invece che la 38enne sia affetta da “turbe psichiche e deficit cognitivi” che non le permetterebbero di rendersi pienamente conto della realtà dei fatti: intervistata nel corso dell’ultima puntata di “Crimini e criminologia” su Cusano Italia Tv, la legale ha fatto sapere che, per questo, una volta lette le motivazioni della sentenza, ricorreranno in Appello, chiedendo una nuova perizia psichiatrica.

Intanto nel carcere in cui è reclusa, il San Vittore, Pifferi avrebbe iniziato lo sciopero della fame. E al suo avvocato avrebbe rivelato di non voler più vivere.