Potrebbero essere vicine ad una svolta le indagini relative agli attentati che tra il 1994 e il 2006 sconvolsero le province di Pordenone, Udine, Treviso e Venezia, attribuiti al cosiddetto “Unabomber italiano“, mai identificato: dall’analisi di vecchi reperti, gli inquirenti – che nel 2023 hanno riaperto il caso su richiesta del giornalista Marco Maisano e di due delle vittime – sarebbero riusciti a risalire al suo Dna.

Trovate tracce di Dna sui reperti degli attentati attribuiti all’Unabomber italiano

Il Dna raccolto sarà ora confrontato con quello delle persone finora finite nel mirino degli inquirenti per gli attentati. “È inconcepibile che escano notizie e la difesa non ne sappia niente”, ha dichiarato l’avvocato Maurizio Paniz, che assiste Elvo Zornitta, tra i principali indagati della prima inchiesta, archiviata nel 2009, esprimendo “significativi dubbi sulla conservazione dei reperti”.

“In questi anni le manipolazioni possono essere state molteplici e quindi non credo sia stata garantita la conservazione”, ha dichiarato, mettendo in evidenza che “era già stato ripetutamente estratto un Dna di Unabomber“. A riportare le sue parole è l’Ansa, secondo cui, per ora, il procuratore capo di Trieste, Antonio De Nicolo, non si sarebbe invece scomposto.

La svolta sarebbe arrivata dall’analisi di vecchi reperti, voluta dagli inquirenti dopo la riapertura del caso su richiesta del giornalista Marco Maisano – autore di un famoso podcast sul caso – e di due delle vittime. Tracce di Dna sarebbero state isolate, in particolare, sui nastri usati per chiudere alcuni degli ordigni progettati dall’attentatore e su vari altri oggetti presenti nei luoghi in cui furono esplosi, sequestrati negli anni.

Un caso irrisolto

L’esito delle nuove perizie dovrebbe essere depositato in tempo utile per l’udienza del prossimo ottobre. Se potrà portare a una risoluzione del caso non è ancora chiaro. C’è chi ci spera, augurandosi che le vittime e le loro famiglie possano finalmente ottenere la giustizia che meritano. Sono cinque in totale. Due all’epoca erano delle bambine.

I fatti risalgono a ormai diversi anni fa: quello che i giornali hanno rinominato nel tempo “Unabomber italiano” per via delle similitudini con l’omonimo statunitense Theodore Kaczynski, autore di una serie di attentati mortali, avrebbe commesso, in un arco temporale di circa dieci anni (con una pausa), una trentina di attacchi dinamitardi tra varie province del nord-est, l’ultimo nel 2006.

La sua strategia, priva di un chiaro movente, consisteva – secondo le ricostruzioni – nel trasformare piccoli oggetti di uso quotidiano come pennarelli, confezioni di uova o tubetti della maionese in veri e propri ordigni, collocati in luoghi pubblici per ferire persone casuali.

Il ruolo del Dna

Gli ultimi sviluppi della vicenda – che ancora catalizza l’attenzione dell’opinione pubblica – fanno pensare al caso di Yara Gambirasio, la 13enne scomparsa da Brembate di Sopra, in provincia di Bergamo, il 26 novembre del 2010 e trovata morta due mesi più tardi in un campo di Chignola d’Isola, a una decina di chilometri di distanza.

Un caso per la cui risoluzione fu fondamentale proprio l’analisi del Dna rintracciato sugli abiti che l’adolescente indossava, attribuito prima ad “Ignoto 1” e poi, dopo una serie di difficili accertamenti, a Massimo Bossetti, condannato all’ergastolo per omicidio. I suoi legali sono da poco riusciti a visionare i reperti da cui il profilo genetico fu estratto; puntano ad analizzarli di nuovo per capire se l’uomo, che si è sempre proclamato innocente, potrebbe essere, in realtà, vittima di un errore giudiziario.