La tassa del 30% proposta dall’amministrazione Biden sull’uso dell’elettricità per le operazioni di mining di asset digitali sta sollevando non poche preoccupazioni tra i minatori di criptovalute. Se per l’anno in corso non è stata accolta dal Congresso, è stata comunque riproposta per il 2025. E nel caso in cui fosse accolta a livello parlamentare comporterebbe non pochi problemi per l’industria mineraria statunitense. La quale, per non farsi trovare impreparata in una ipotesi di questo genere, sta iniziando a guardarsi intorno.

Tra le possibili direttrici di espansione, una di quelle che stanno emergendo con maggiore forza è rappresentata dal Medio Oriente. E proprio in quella parte del continente asiatico potrebbero convergere le mining farm statunitensi nel futuro. Soprattutto se la proposta di Biden dovesse diventare legge.

Mining: cosa sta accadendo negli Stati Uniti?

Le condizioni per il mining sono state sinora favorevoli, negli Stati Uniti. Una situazione che potrebbe però mutare, ove la tassa sull’energia elettrica necessaria per l’attività dovesse essere approvata. È Kyle Shneps, direttore delle politiche pubbliche presso Foundry, società mineraria crypto con sede negli Stati Uniti, a prevede un calo dell’attività nel Paese, ove se la legge fosse approvata.

Questa la sua dichiarazione, al proposito: “Una tassa del 30% sull’elettricità utilizzata dai minatori di bitcoin ucciderebbe sicuramente l’industria negli Stati Uniti. Penso che sarebbe senza precedenti che si verificassero tali attacchi all’elettricità utilizzata. Costituisce un precedente davvero pericoloso”.

Lo stesso pensiero espresso da Darin Feinstein, fondatore della società mineraria Core Scientific. Secondo lui, infatti, un’evenienza di questo genere indebolirebbe in maniera decisiva un settore fondamentale dell’economia a stelle e strisce. Ove ciò accadesse, Investimenti e tecnologia si trasferirebbero in ambienti più ospitali.

Mentre è meno sicuro in tal senso Anthony Scaramucci, di Skybridge Capital. L’ex direttore delle comunicazioni della Casa Bianca, ritiene che gli Stati Uniti rimangono comunque un posto ideale per le risorse digitali, compreso il mining. Tanto da affermare: “Nonostante l’incertezza normativa, gli Stati Uniti offrono un ecosistema maturo per l’innovazione e la crescita, con molte delle principali aziende e progetti di criptovaluta già qui”.

Il mining di criptovalute potrebbe trasferirsi in Medio Oriente

I minatori di criptovalute negli Stati Uniti rappresentano oltre il 29% del totale dei nodi della rete Bitcoin. Una percentuale la quale, però, potrebbe ridursi fortemente nel caso in cui la tassa sul mining proposta dall’amministrazione Biden dovesse andare in porto. In tal caso, infatti, altre parti del mondo potrebbero presentare condizioni molto più favorevoli per collezionare profitti con il mining di valuta digitale.

In particolare, molte aziende stanno già guardando con grande interesse al Medio Oriente. Si tratta infatti di una parte del globo ove la pressione fiscale è ancora su livelli molto contenuti. Aggiungendosi all’abbondanza di energia elettrica, tale da comportare tariffe non esose, e ad una normativa ambientale meno opprimente.

È Olivier Ohnheiser, il CEO di Green Data City, a spiegare le condizioni di cui potrebbero avvalersi i minatori ove decidessero di spostare la propria attività nella zona: “Rispetto agli Stati Uniti, il sud dell’Oman presenta alcuni vantaggi geopolitici unici. E’ ottimo per i collegamenti, in quanto è vicino all’atterraggio dei cavi sottomarini. Dispone di elettricità a basso costo, rischio politico ridotto e condizioni meteorologiche favorevoli per i data center.”

Una dichiarazione rilasciata nel corso del World Digital Mining Summit di Bitmain, svoltasi in Oman, alla fine del mese di marzo. Ovvero nel Paese che ha investito più di 800 milioni di dollari in operazioni di mining di criptovalute. Secondo i dati rilasciati dall’Hashrate Index, i 400 megawatt di mining di Bitcoin degli Emirati Arabi Uniti rappresentano circa il 4% dell’hashrate di mining di Bitcoin globale.

In Medio Oriente il mining è già attivo

Proprio Green Data City ha siglato l’anno scorso un accordo da 300 milioni di dollari con Phoenix Group, la più grande società di mining di asset digitali negli Emirati Arabi Uniti. Un accordo teso alla creazione di una cripto farm da 150 megawatt a Salalah, nel sud dell’Oman. L’impianto, che condurrà mining di Bitcoin, Litecoin e altri asset crittografici Proof-of-Work, sarà completato entro la fine dell’anno.

Sempre nel 2023, Digital Marathon (MARA) e Zero Two, sostenuto dal fondo sovrano di Abu Dhabi, hanno firmato una joint venture da 406 milioni di dollari riguardante la costruzione del primo impianto minerario Bitcoin raffreddato ad immersione nella regione del Medio Oriente. Una tecnologia, quella di raffreddamento, che consente di bypassare il problema rappresentato dalle temperature del deserto. Nonostante massime di 50°, le attrezzature minerarie sono messe in grado di funzionare in modo ottimale anche in un ambienti difficile.

Resta ora da capire se la repressione normativa degli Stati Uniti sul business delle criptovalute sia destinata a protrarsi. Senza un mutamento di rotta, il Medio Oriente potrebbe diventare una meta preferenziale per l’industria mineraria locale.