L’acquisto di crediti d’imposta inesistenti e la loro successiva indicazione nella dichiarazione dei redditi per ridurre l’imposta dovuta costituisce un reato. È quanto sancito dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 8653 del 28 febbraio 2024, secondo cui questa condotta integra il reato di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, ai sensi dell’articolo 3 del Decreto Legislativo n. 74/2000.
Reato di dichiarazione fraudolenta con crediti d’imposta inesistenti: normativa di riferimento
L’articolo 10-quater del Dlgs 74/2000 disciplina il reato di indebita compensazione e distingue due situazioni sanzionate diversamente:
- Compensazione con crediti non spettanti: reclusione da sei mesi a due anni per chi non versa le somme dovute, usando crediti non spettanti oltre 50.000 €.
- Compensazione con crediti inesistenti: reclusione da un anno e mezzo a sei anni se i crediti inesistenti superano 50.000 €.
Il più grave reato contestato all’imputato, tuttavia, riguarda la dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, descritta all’articolo 3 dello stesso decreto. Questo articolo punisce chiunque, simulando operazioni o usando documenti falsi, inserisca elementi attivi sottostimati o crediti fittizi in dichiarazioni fiscali, se l’imposta evasa supera 30.000 € o se la percentuale di evasione supera il 5% del totale.
Reato di dichiarazione fraudolenta con crediti fittizi: elemento soggettivo e dolo
La Corte specifica che l’articolo 10-quater richiede un dolo generico. L’inesistenza del credito è indice sufficiente della volontà del contribuente di utilizzare un credito fittizio per bilanciare i propri debiti, tranne prova contraria. Se i crediti sono legittimi ma non spettanti, bisogna dimostrare la consapevolezza del contribuente.
L’articolo 3, invece, richiede un dolo specifico, cioè la deliberata intenzione di evadere le tasse. La prova di questa volontà è necessaria per configurare il reato di dichiarazione fraudolenta.
Sentenza della Cassazione n. 8653/2024
La sentenza n. 8653/2024 della Corte di Cassazione si riferisce a un caso in cui il rappresentante legale di una società, Mondial Tempra Srl, è stato condannato per aver indicato crediti d’imposta inesistenti ceduti dalla Sopel Srl. Sopel Srl non aveva mai presentato alcuna dichiarazione fiscale, non aveva depositato bilanci, ed era sconosciuta al fisco. Inoltre, la società non aveva ottenuto l’autorizzazione per la cessione e il corrispettivo era sproporzionato rispetto al valore dei crediti.
Il ricorrente è stato condannato per aver indicato in dichiarazione crediti d’imposta inesistenti, comprati da un’altra società per un valore sproporzionato rispetto al costo effettivo. La società ha dichiarato crediti relativi a investimenti in aree svantaggiate, con un valore nominale di 1,6 milioni di euro, acquistati per soli 240 mila euro. Questi crediti, tuttavia, sono stati accertati come inesistenti.
Processo e decisioni
La Corte d’appello di Milano ha confermato la condanna a 8 mesi di reclusione e pene accessorie. La decisione si basava su diverse prove che mostravano come l’imputato avesse intenzionalmente utilizzato crediti inesistenti.
L’imputato ha fatto ricorso in Cassazione per presunte irregolarità procedurali e contestando la valutazione della Corte d’appello, ma il ricorso è stato respinto.
Nello specifico, nel ricorso, il legale rappresentante della società ha affermato l’assenza del dolo specifico, sostenendo di aver pagato 240 mila euro come corrispettivo del credito e di aver sporto una denuncia per truffa contro il cedente. Inoltre, ha dichiarato di essersi avvalso di professionisti qualificati per la conclusione dell’operazione.
La Cassazione ha sottolineato la congruità delle motivazioni fornite dai giudici di merito e la validità delle prove che dimostravano la piena consapevolezza dell’imputato.
La Corte di Cassazione ha confermato la condanna del legale rappresentante di una società a responsabilità limitata per il reato di dichiarazione fraudolenta mediante l’inserimento di crediti d’imposta inesistenti nella dichiarazione fiscale.
La Corte di Cassazione ha confermato dunque la sentenza di condanna, evidenziando la sussistenza di tutti gli elementi del reato:
- Inesistenza dei crediti: mancava il nulla osta dell’Agenzia delle Entrate per la cessione, e la società cedente era evasore totale, non presentando dichiarazioni né bilanci.
- Consapevolezza del ricorrente: la consapevolezza del legale rappresentante è emersa dalle caratteristiche della società cedente e dalla sproporzione tra il valore dei crediti (1,6 milioni di euro) e il costo pagato per l’acquisto (240mila euro).
- Finalità di evasione: il risparmio fiscale sarebbe stato superiore all’esborso effettuato. Per concretizzare tale vantaggio, il ricorrente necessitava di un supporto documentale che potesse essere usato in modo fraudolento.
In conclusione, il ricorso è stato rigettato dalla Corte di Cassazione, che ha condannato il legale rappresentante della società al pagamento delle spese processuali. La dichiarazione fraudolenta di crediti inesistenti configura un reato punibile con la reclusione da tre a otto anni, confermando così la gravità delle sanzioni applicate per frode fiscale.