Uscita lo scorso 11 aprile, sulla piattaforma di streaming Netflix, “Baby Reindeer” è una miniserie composta da sette puntate scritta e interpretata dall’attore e sceneggiatore Richard Gadd. La storia narra un episodio di stalking realmente accaduto e subito dal protagonista nel 2015. Attraverso questa narrazione, che dapprima si focalizza solo sulle molestie subite, l’attore affronta i suoi traumi più celati mettendosi completamente a nudo, come a cercare una sorta di espiazione.
“Baby Reindeer”, recensione
2015. Donny Dunn (Richard Gadd) ha ventisei anni e lavora come barista in un pub di Londra. È un aspirante comico dallo scarsissimo successo. Da ragazzino ha iniziato a partecipare a diversi eventi di stand up comedy e nel 2010 si è trasferito a Oxford per frequentare una scuola di recitazione, nella quale ha conosciuto la sua ormai ex Keeley. Attualmente guadagna poco, vive ancora a casa della ex con la madre di lei e non riesce a rassegnarsi all’idea di non avere abbastanza talento per fare carriera nel mondo della comicità.
Non possiede un gran fisico, o chissà quale aspetto da far girare la testa, ma ha un viso maledettamente interessante e un sorriso che ti fa sentire calorosamente accolto come in un abbraccio materno. Ha un corpo abbastanza esile, con le gambe magre, le braccia sottili, ma muscolose, e il torace scarno. Ha la carnagione un po’ giallastra e un paio di grandi occhi verdi cerchiati da due solchi rossastri, come se avesse perso il sonno non riuscendo a zittire qualcosa che lo tormenta, deviandogli la coscienza e graffiandogli l’anima. Ma è sempre molto accomodante con tutti, come a voler nascondere dei segreti inconfessabili dietro una pacata gentilezza e un’onnipresente risata sorniona su quella bocca leggermente nascosta da un velo di barba bruna.
In una giornata cupa, nel tipico grigiore londinese, fa il suo ingresso al pub una strana ragazza sulla trentina: con l’aria triste e gli occhi umidi, come se stesse trattenendo un fiume di lacrime pronte a scivolarle rapide sul viso pesanti come dei sassi, si avvicina al banco a sguardo basso e si siede su uno degli sgabelli liberi. Donny nota immediatamente quell’ombra di tristezza nella sua espressione assente e, col suo solito modo di fare, cerca subito di metterla a suo agio, dandole confidenza.
Si chiama Martha (Jessica Gunning) e sostiene di lavorare come avvocato per i politici più importanti del Paese. Inizia a parlare tantissimo, senza quasi prendere fiato tra una frase e l’altra, come se non rivolgesse parola ad anima viva da settimane. Indossa una maglietta troppo stretta, dal colore rosa cipria con un motivo floreale ricamato su quella stoffa acrilica a buon mercato. Ha i capelli visibilmente sporchi, con un filo di ricrescita grigiastra all’attaccatura dei capelli fini, né lisci né ricci; una massa castana senza una forma precisa. Ha l’iride smeraldo e lo sguardo rassegnato, la faccia talmente paffuta da non avere neanche uno stacco tra il mento e il collo, è in evidente sovrappeso, col corpo sformato, come se nel cibo cercasse disperatamente un conforto, un po’ di calore umano che non riceve da così tanto tempo quasi da dimenticarsi cosa si prova a essere tenuti stretti tra le braccia di qualcun altro. Non ha neppure i soldi per permettersi una tazza di thè, ma insiste con questa surreale descrizione di sé come grande professionista acclamata, senza rendersi conto che tutto del suo aspetto trasandato lascia trapelare un’afflizione soffocante che in modo chiaro si evince abbattersi su ogni sua giornata.
Quei racconti così assurdi suonano come un grido straziante d’aiuto. Martha vuole solo essere ascoltata, vorrebbe essere amata e la gentilezza di Donny la porterà istantaneamente a fraintendere le intenzioni di lui iniziando a provare una fascinazione romantica non corrisposta. Ma quel caotico chiacchiericcio sopra le righe non spaventa Donny, piuttosto lo incuriosisce, lo affascina, ne vede un possibile spunto per la creazione dei suoi monologhi comici. Inoltre è ammaliato dalla risata di lei, così incontrollatamente spontanea e rumorosa, che ride alle sue battute come nessuno ha mai fatto durante i suoi spettacoli. Questo lo lusinga, lo stuzzica, lo porta a dire frasi sempre più ambigue senza far caso al fatto che così sta alimentando delle false speranze in quella donna chiaramente disturbata.
Difatti lei comincerà, piano piano, a sviluppare un’ossessione maniacale, in un crescendo di follia, nei riguardi di quel barista così gentile, che si è accorto della sua esistenza, fino a perseguitarlo con centinaia di email al giorno.
Entrambi così diversi che anche solo a un prima occhiata, l’uno di fianco all’altro, appaiono come se provenissero da due galassie differenti. Lui accanto a lei pare così gracile che a guardarli ti viene istintivamente la paura che il peso di Martha possa schiacciarlo in qualunque istante.
Eppure c’è qualcosa nelle loro coscienze turbate che li lega a doppio nodo, generando una stranissima connessione che pare fatta apposta per placare i rispettivi disagi psichici come a fuggire da se stessi, l’una concentrandosi interamente su un rapporto quasi inesistente e l’altro senza riuscire a spezzare questa ossessione opprimente, quasi ne avesse bisogno per sfuggire da ciò che del suo passato realmente lo perseguita.
“Baby Reindeer”, critica
Lo scorso 11 aprile, sulla piattaforma di streaming Netflix, è uscita la miniserie “Baby Reindeer” composta da sette episodi. La vicenda narra la vera storia di Richard Gudd, ex aspirante comico e ormai sceneggiatore e attore, che interpreta la parte del protagonista Donny Dunn. Fu realmente vittima di stalking e molestie perpetrati da una donna conosciuta nel pub dove lavorava come barman. Scrisse questa sceneggiatura alla fine del processo che condannò la sua molestatrice a nove mesi di carcere e cinque di libertà condizionata.
Diretta dalle registe Weronika Tofilska e Josephine Bornebusch, questa serie ha riscosso un’enorme fama dirompente e, a tutt’oggi, è tra gli spettacoli più discussi in moltissimi Paesi nel mondo. Ciò che colpisce maggiormente di questa storia è la rappresentazione di come alcuni disagi mentali e alcuni traumi irrisolti, ad esempio quello dello stupro, generino una sorta di calamita per persone che fuggono dai loro problemi. La coprotagonista Martha, interpretata dall’attrice Jessica Gunning, mostra i segni più evidenti del disturbo di personalità borderline che la induce a esasperare i rapporti di semplice conoscenza fino a farli diventare per lei l’unica ragione di vita e il suo solo scopo esistenziale, culminando in una morbosità che affligge la vittima quanto lei stessa, che non riesce più a pensare ad altro, arrivando all’aggressività violenta. Di contro il protagonista Donny non riesce a spezzare in maniera netta questo rapporto ossessivo, se pur risultandogli insopportabile, alla maniera tipica di chi ha subito una violenza sessuale e degli abusi psicologici; sì, perché spesso le persone molestate si ritrovano in un intricato vortice di bisogno d’approvazione e mancanza di autostima, che le porta a voler compiacere gli altri anche se questo li può esporre a un potenziale pericolo.
Questa non è solo una vicenda dalle tinte horror per intrattenere lo spettatore medio, ma è una riflessione interessante su come certe personalità disturbate siano attratte le une dalle altre in una necessità malata e irresistibile. Se da un lato abbiamo la continua danza tra l’idealizzazione e la svalutazione umiliante, dall’altro troviamo la necessità vitale di nutrirsi di quella grande stima irrealistica che quando viene a mancare, in un exploit di insulti e aggressività verbale, genera un panico che risveglia il trauma dello stupro e la conseguente mancata ammirazione di sé.
Ho trovato il personaggio di Donny lacerante come una ferita inferta dalla lama affilata di un coltello: se pur colpevole di alcuni errori imperdonabili, non puoi non provarne pena. Questo personaggio mi ha parlato in così tanti modi, che quasi me ne vergogno.
Anche il ruolo di Martha, per quanto insopportabile, alla fine ti mostra l’altro lato di una mentalità molesta che non conosce limiti, spezzandoti il cuore.
Questa è una serie difficile da guardare, ma di rara bellezza. Ci spinge a interrogarci su temi necessari, che troppo spesso evitiamo fingendo che non esistano e che non ci appartengano.
Non mi sento di dare un giudizio in termini di voto, semplicemente perché l’ho trovata talmente bella e disturbante da non rientrare per me in nessuna scala possibile.