È un cittadino come tanti, Giuseppe Trimboli, detto Pino. Ha viaggiato molto, si è sporcato le mani facendo lavori diversi e da diversi anni, ormai, porta avanti la sua trattoria “La Collinetta” a Martone, in provincia di Reggio Calabria, insieme alla sua grande e unita famiglia. Ai giornalisti di TAG24, lo chef calabrese ha raccontato la storia della sua incrollabile onestà, che gli ha permesso di non piegarsi alla mafia.
Lo chef Giuseppe Trimboli: “Il nostro comportamento ci ha resi scomodi per qualcuno”
Non è necessario fare qualcosa di particolarmente grandioso per essere ricordati o essere definiti “eroi“, a volte basta semplicemente essere persone oneste. Purtroppo, nel nostro Paese e, soprattutto, in molte zone del sud Italia, è difficile non scontrarsi con chi di onorevole non ha nulla.
Questo è ciò che è accaduto allo chef e proprietario de “La Collinetta” – una trattoria del piccolo comune di Martone in provincia di Reggio Calabria – Giuseppe Trimboli, vittima di violente minacce da parte di affiliati alla mafia, Giuseppe Salvatore Mittica, 59 anni, e Rocco Domenico Libero Panetta, 37 anni. Sono tristemente note le ritorsioni e le angherie subite da chi ha deciso di non piegarsi al pizzo imposto dalla mafia per “condurre la propria attività in tranquillità e sotto protezione“.
Invece, Trimboli è rimasto fermo e incrollabile: non ha ceduto alle minacce rivolte contro i suoi cari e, anzi, non solo ha denunciato quanto gli stava accadendo, ma ne ha parlato pubblicamente “mettendoci la faccia”. A TAG24, l’imprenditore calabrese ha raccontato la sua storia.
D: Come è iniziato tutto?
R: La notizia è ritornata in auge in questi giorni perché è iniziato il processo a due degli indagati, ma i fatti risalgono a fine 2018. Io e la mia famiglia abbiamo un’attività di ristorazione, che ho aperto nel 1998, in un paesino di 400 abitanti e facciamo anche da impresa agricola. La nostra osteria è tra le 200 premiate con la Chiocciola da Slowfood in Italia, abbiamo vinto numerosi premi nazionali e diamo lavoro a più di dieci famiglie.
Abbiamo sempre operato con convinzione e siamo sempre stati onesti. Forse, questo nostro comportamento e l’avere successo ci ha fatti diventare un esempio scomodo. Così a fine 2018, ci sono arrivate queste lettere anonime, nelle quali ci veniva un pizzo di 50mila euro, altrimenti avrebbero bruciato i miei figli, la mia attività e tutti i miei cari.
Dopo la quarta lettera, messa sul parabrezza dell’auto di mio padre, abbiamo capito che si stavano avvicinando e che il passo successivo, magari, sarebbe potuto essere più grave. Noi avevamo già denunciato, quindi non abbiamo cercato alcuna protezione né ceduto. Il fatto straordinario è che noi abbiamo reso pubblico quanto stava accadendo. Nel sud Italia, un’attività che lavora in periferia, un imprenditore che va davanti le telecamere e ammette che lo stanno minacciando, spesso, corre il rischio di rimanere isolato.
Identificati gli autori delle lettere anonime, Trimboli: “Che onore c’è a minacciare dei bambini?”
La famiglia Trimboli, inoltre, dall 2007 è socia della Cooperativa Goel, nata per contrastare il potere mafioso e che li sta supportando e aiutando anche all’udienza preliminare. Infatti, la cooperativa sociale ha deciso di costituirsi parte civile al processo, dopo che gli inquirenti sono riusciti a identificare i due autori delle lettere minatorie.
A TAG24, Trimboli ha detto:
“Gli agenti hanno trovato due sospetti grazie alle impronte digitali sulle lettere e alla calligrafia. Uno di loro ha precedenti penali, quindi era già schedato. Certamente, ci saranno dietro altre persone, però, il fatto che due persone vadano a processo per minacce, penso sia una gran cosa.
Inoltre, il locale ha iniziato a essere frequentato ancora di più, la gente ha scelto di venire a mangiare da noi e di stare dalla nostra parte. Non ci hanno fatto mancare l’appoggio, dopo aver saputo che avevamo subito questo tipo di minacce. Poi – devo dire – non abbiamo più avuto alcun tipo di ritorsione”.
D: Date speranza anche ad altri commercianti e imprenditori che subiscono la stessa cosa
R: È vero. Molti dicono che sono un eroe, che sono coraggioso, ma io non mi sento così. Sono un genitore, padre di quattro figli. Al momento delle minacce, mio figlio più piccolo aveva 1 anno, quindi, immagina la paura. Noi siamo una famiglia molto umile. Quando ero piccolo mio padre è emigrato, perciò, noi eravamo fra le famiglie più povere del paese. Tutto ciò che abbiamo costruito, lo abbiamo fatto con la cultura del lavoro, dei sacrifici e del rispetto verso gli altri. Pensare che qualcuno ti possa togliere la libertà, la dignità, mi fa paura.
Eppure, se mi fossi piegato non sarei riuscito più a guardare in faccia i miei figli. Queste persone si ritengono d’onore, ma di onorevole non hanno nulla…Che onore c’è a minacciare dei bambini? Penso di aver fatto soltanto quello che sentivo di dover fare da genitore e da uomo libero.
Le infiltrazioni mafiose nella Locride
D: La sua è una storia di rivalsa, che spinge a non cedere alla mafia
R: Io sono andato controcorrente da sempre. Prima sono emigrato negli Stati Uniti, poi ho girato e alla fine ho deciso di investire nella mia terra, nel posto dove sono nato. A 23 anni ho aperto la mia attività, ho investito tutto ciò che avevo. Abbiamo sempre lavorato contro il pronostico di chi pensava avremmo fallito, invece, abbiamo sempre lavorato tanto.
D: Il vostro paese è particolarmente sotto il controllo mafioso?
R: Il nostro paesetto è molto piccolo, Martone non fa testo. Gioiosa Ionica è già una cittadina più grande, però, bisogna pensare alla Locride. Negli ultimi 10 anni, invece di nominare Corleone, nominano la Locride nei film e nelle fiction di mafia, il parametro è questo qua. Non siamo in una zona facile, ma ci sono tante persone che non accettano i soprusi, che non si vogliono piegare. È vero anche che c’è ancora tanta omertà. Si pensa che il silenzio ti tuteli, invece, non è così.
Quando noi abbiamo raccontato ciò che stava succedendo, io non mi sono sentito più solo, anzi. Mi sono liberato di un peso. Questo significa rendere anche più responsabile la comunità. Il discorso è che se vivi in Calabria, Sicilia, Campania ecc. prima o poi ti scontrerai con qualcuno. Anche per una banalità, magari qualcuno ti frega il parcheggio e, davanti alle tue rimostranze, ti dice “tu non sai chi sono io“: ti scontri. In situazioni come la mia, fa la differenza se ti sei sottomesso, se hai chiesto qualcosa o, viceversa, se sei stato una persona retta, che ha affrontato e superato la cosa a testa alta. Se ti sei chinato a loro, allora, non puoi più guardarli a testa alta.
D: Prima mi diceva che è cominciato il processo, me ne può parlare?
R: Siamo nelle fasi preliminari. Nella giornata di ieri c’è stata l’udienza dove la Cooperativa Goel è stata accolta anche come parte civile. La normativa, in genere, non agevola le cooperative a costituirsi parte civile insieme alle parti lese. Il giudice, invece, ha accolto la richiesta: questo significa essere associati a una cooperativa che ti sostiene, collabora con te e ti aiuta a crescere lavorativamente. Dare l’esempio dell’etica, non è solo una cosa buona e giusta da fare, ma è anche efficace a livello economico.
All’alleanza con chi delinque – visto che rubando o spacciando si guadagna di più – si dimostra che c’è un’alternativa, che ti permette di vivere dignitosamente e a progredire in modo onesto. Qui, l’etica efficace fa tutta la differenza.
D: Quindi ora bisognerà attendere la fine delle indagini preliminari?
R: Noi siamo fiduciosi. Io penso che a prescindere da quello che succederà, abbiamo già vinto perché l’opinione pubblica, la massa ha dimostrato di stare con noi, di non avere paura a frequentare il nostro locale, di schierarsi e farsi vedere insieme a noi. Di sceglierci. Soprattutto, speriamo di essere stati d’esempio per chi si è trovato o si troverà in questa situazione.