“Cattiverie a Domicilio” è il nuovo dirompente film firmato Thea Sharrock, regista del grande successo “Io Prima di Te”, che in chiave di commedia affronta gli anni della repressione femminile e della rivolta femminista tramite un bizzarro caso di cronaca realmente accaduto.
“Cattiverie a Domicilio”, recensione
1920. L’aria di Littlehampton è fresca, ultimamente c’è sempre il sole a illuminare anche l’angolo più buio di questa piccola cittadina nella quale non si sa bene dove finisca la tranquillità e dove inizi la noia. Lungo le rive di una spiaggia lunghissima meno di trentamila abitanti sembrano vivere tutti la medesima quotidianità, fatta di una semplicità soffocante. Sarà per questo che l’arrivo chiassoso di una nuova donna in paese guasterà il sonno di molti uomini e scatenerà il chiacchiericcio di cortile delle signore perbene.
Rose Gooding (Jessie Buckley) non è esattamente ciò che la comunità di una modesta provincia in riva al mare definirebbe ben inquadrata nella femminilità borghese: quando apre quella bocca, incorniciata dalle sue labbra sottili, ne escono fuori frasi talmente sboccate da far impallidire un marinaio. Ha un fisico esile e minuto, ma si muove sguaiatamente in maniera scomposta come fosse un ragazzo. Beve come una spugna, frequenta i bar per soli uomini, spende in scommesse ed è sempre brutalmente sincera. Indossa abiti che sembrano camicie da notte, non porta il reggiseno lasciando intravedere i capezzoli, ma non lo fa con un fine seduttivo, piuttosto con una strafottenza villana che solitamente viene concessa soltanto ai maschi. A volte tutta quella maleducazione la mette nei guai, ma non sembra importarle granché. Le uniche due persone di cui le importa sono sua figlia Nancy (Alisha Weir) e il suo compagno Bill (Malachi Kirby), ma anche a loro riserva lo stesso linguaggio volgare e le esternazioni impulsive dettate dal suo brutto carattere. Rose è fuggita dall’Irlanda quando suo marito è morto in guerra per cercare un posto migliore dove portare la figlia. Ma a peggiorare la pessima impressione fatta in città c’è anche il fatto che Bill è nero e in quegli anni le coppie miste non erano ancora viste di buon occhio.
Proprio per tutti questi motivi quando la loro vicina di casa, Edith Swan (Olivia Colman), comincia a ricevere delle lettere piene di insulti irripetibili i sospetti ricadono immediatamente su Rose.
Inizialmente amiche, adesso non si parlano più: Edith in un primo momento aveva imparato rapidamente ad amare il menefreghismo scarsamente riflessivo di Rose. La faceva ridere, se pur con timido imbarazzo, e in lei vedeva la donna che non aveva mai avuto il coraggio di essere. Ma dopo uno stupido battibecco tra le due si aprì una crepa irreparabile, culminando con una richiesta di visita a domicilio dei servizi sociali per discutere la custodia di Nancy a sua madre Rose. E quale miglior movente, se non questo, per giustificare l’invio di quella corrispondenza dal contenuto così scandaloso?
Edith è sulla cinquantina e vive ancora coi genitori, Edward (Timothy Spall) e Victoria (Gemma Jones). Fortemente timorati di Dio, per loro quelle lettere sono una vera sciagura paragonabile a una delle sette piaghe d’Egitto. Edward Swan è un uomo all’antica, crede ancora che le donne non abbiano diritto di decidere per sé, né tantomeno di lavorare. Preghiere e faccende domestiche, sono queste le condizioni nelle quali è dovuta crescere la figlia e non si fa fatica a capire perché sia rimasta zitella. Edith è una persona semplice, non particolarmente intelligente, dal temperamento scarso e remissivo. Gioisce dinnanzi alle piccole cose e la messa della domenica è l’unico evento mondano che si concede, fatta eccezione delle visite al circolo femminile per giocare a carte. È piuttosto grassoccia, con gli occhi grandi e tondi, i capelli castani tagliati corti, come una buona cristiana, per non attirare attenzioni maschili, indossa sempre abiti scuri e larghi per non lasciar intravedere neanche un vago ricordo delle sue forme abbondanti. Sul suo volto, dalla pelle lucida e giallastra, c’è sempre un forzato sorriso dai denti lunghi e affusolati, nel goffo tentativo di mascherare un animo eccessivamente impaurito dal prossimo. Non conosce molto del mondo al di fuori di quella minuscola realtà a pochi passi dall’oceano e il contenuto verbalmente violento di quelle lettere indesiderate, la destabilizza.
Dunque sarà proprio il padre a costringerla a sporgere denuncia contro Rose, presso la polizia locale. Ma sarà davvero la sua acerrima nemica a inviarle quelle parole piene di astio e livore? Del resto, come Rose stessa dirà durante il processo, perché scriverlo quando posso dirlo in faccia?
“Cattiverie a Domicilio”, critica
“Cattiverie a Domicilio” è la nuova entusiasmante commedia diretta dalla regista Thea Sharrock, la stessa del grande successo “Io Prima di Te”. Uscito il 18 aprile nelle migliori sale italiane, questo film parla di una storia realmente accaduta agli inizi degli anni ’20 proprio a Littlehampton. Un caso di cronaca largamente discusso che scioccò l’intera società inglese, giustappunto nello stesso periodo in cui le Suffragette stavano riscrivendo la storia della politica manifestando ribellione e rivolta per ottenere tutti quei diritti che le donne, fino a quel momento, non avevano potuto rivendicare.
Tant’è che questa vicenda controversa, dove tutto sembra il contrario di tutto e il finale è più assurdo di quel che si pensi, fu risolta nell’arco di parecchio tempo perché un’agente di polizia donna assegnata al commissariato dove fu presentata la denuncia, che aveva capito da subito chi non fosse assolutamente il colpevole, non poté prendere parte alle indagini proprio a causa del suo genere sessuale. A quei tempi le poliziotte potevano soltanto prestare supporto emotivo alle vittime dello loro stesso sesso. Non gli era concesso di partecipare attivamente alle operazioni investigative.
Per quanto possa sembrare un episodio divertente e di scarsa rilevanza, in realtà racchiude l’intero universo del dolore femminile, causato dall’oppressione misogina, per troppo tempo sopportato senza alzare la testa in segno di abnegazione.
La recitazione di tutto il cast, nessuno escluso, è impeccabile come di consueto nella tradizione inglese. La fotografia lodevole, che ci riporta perfettamente al 1920 con le ambientazioni e i costumi dell’epoca. I dialoghi, dirompenti e senza freni, sono letteralmente elettrizzanti. Questa pellicola ti tiene con lo sguardo incollato allo schermo, senza mai perdersi nel superfluo. Ma se a una prima lettura può sembrare un lungometraggio divertente e leggero, davanti a molte scene ho sofferto come colta da un malore inatteso.
Thea Sharrock, con la sua regia sottile e tagliente come la lama affilata di un pugnale, riesce a farti arrivare tutta la frustrazione e la sofferenza di un’intera generazione di donne obbligate a subire e a crescere nella repressione. È soprattutto dinnanzi al finale che mi sono sentita quasi soffocare, assistendo alla scena terribile di una donna che per ottenere la sua libertà è costretta a scegliere la galera pur di sfuggire a una prigionia più profonda. Le risate assordanti, in preda a una crisi delirante, di Olivia Colman (che interpreta la parte di Edith Swan) nelle ultime scene, mi hanno letteralmente spezzato il cuore.
Non posso far altro che consigliare a tutti di correre al cinema per vedere questo capolavoro della cinematografia inglese. Cinque stelle su cinque.