Si inseguono fra le pagine dei giornali italiani le critiche al corso di “hijab”, apparentemente promosso dal Liceo Linguistico Vittorio Bachelet di Abbiategrasso. Polemiche, soprattutto, nel mondo della politica, dopo la diffusione di una circolare che descriveva il progetto. A difendere la scuola e il laboratorio di lingua e cultura araba non solo il corpo docente, con la smentita del dirigente scolastico Ferrario e la Prof.ssa Quaglia, referente del corso, ma anche gli studenti stessi

Critiche sul corso di arabo del Bachelet, Quaglia: “Mai una critica in 3 anni”

Spiacevolmente sorpresa la Prof.ssa Margherita Quaglia, referente del corso e entusiasta promotrice accanto al collega docente di storia e filosofia. Come lei stessa ha detto ai giornalisti di TAG24, si tratta di un corso di introduzione alla lingua e alla cultura araba ormai consolidato all’interno dell’ambiente scolastico.

D: Com’è nata l’idea del corso?

R: Io insegno lingua spagnola e, durante il mio percorso universitario, ho avuto modo di entrare in contatto con la cultura araba e islamica, perché in Spagna è un elemento importante. Durante l’abilitazione all’Istituto Torno di Castano Primo, un docente di italiano aveva un progetto simile, in cui due ragazzine madrelingua presentavano l’alfabeto arabo ai compagni. L’idea mi è piaciuta, è un argomento che conosco e che ho approfondito e così tre anni fa, insieme al docente di storia e filosofia, abbiamo provato a proporre un corso di questo tipo.

Durante il periodo di didattica integrata mista, ho potuto conoscere alcune ragazze di origine araba a cui ho parlato del progetto e che si sono mostrate entusiaste. Lo abbiamo, quindi, presentato in collegio docenti insieme agli altri progetti extracurriculari, ricevendo l’approvazione.

D: La proposta ha avuto successo?

R: Noi ci eravamo dati un minimo di 15 iscritti. Il primo anno abbiamo avuto ben 82 iscritti. Abbiamo fatto addirittura 4 classi. Aggiungo che questo è un corso di PCTO, quindi per le competenze trasversali e l’orientamento, ovvero l’ex alternanza scuola-lavoro. In questo senso, abbiamo voluto valorizzare quelle che sono le competenze pregresse di queste studentesse. Io le ho supportate dal punto di vista didattico, glottodidattico e linguistico, ma comunque la lingua la conoscono loro.

Insieme abbiamo steso il programma del corso, che sottolineo è un corso di introduzione all’alfabeto e alla scrittura, perché non abbiamo competenze tali da poter arrivare a un livello nemmeno di A1. Dunque, ci siamo proposti di conoscere questa cultura tramite la scrittura, la lettura e un pochino di conversazione. Il tutto inframmezzato da lezioni di approfondimento culturale.

Quaglia: “Un momento conviviale completamente travisato”

D: Come avete proceduto, quindi?

R: Le lezioni di livello più alto, relative alla storia, alla diffusione della lingua araba, alla filologia le abbiamo tenute io e il mio collega. Presenti anche gli elementi culturali più popolari, tradizionali, che le ragazze sperimentano quotidianamente a casa. Quindi, dalla gastronomia alle festività, su come si celebrano i matrimoni ad esempio. Dall’abbigliamento alla musica. Le ragazze hanno raccontato le loro esperienze.

D: Da cosa nasce la polemica?

R: Come festa conclusiva del corso, il primo anno, abbiamo avuto un momento conviviale, nel quale abbiamo condiviso bevande e dolcetti tipici, abbiamo rilasciato gli attestati di partecipazione. Lo scandalo è avvenuto per questo collasso del contesto. Nel senso che, durante questo momento, abbiamo fatto un laboratorio di grafia per insegnare ai ragazzi a scrivere il proprio nome in arabo su una carta carina.

Il laboratorio di calligrafia, come quello di hijab, sono solo momenti laboratoriali all’interno di una festa: nel primo caso si può scrivere il proprio nome in arabo con una bella calligrafia, nel secondo provare ad acconciare un velo. Ci tengo a dire che nel nostro corso ci sono ragazze musulmane che indossano il velo e ragazze che invece non lo indossano. È una loro scelta libera.

D: Quindi cosa è successo?

R: Molte studentesse italiane e io stessa, eravamo curiose di capire “ma come si mette?“. Dunque, abbiamo cominciato a “giocarci“, tant’è che anche un ragazzo si è fatto mettere il velo. Se è vero che è un simbolo anche religioso, i simboli risemantizzati in contesti diversi possono assumere significati diversi. E fra coetanei di 15-16 anni, cresciuti in Italia e quindi con una grande libertà rispetto ad altri Paesi, quello è stato solo un momento di condivisione molto bello, sereno e libero.

Questo è ciò che è accaduto gli scorsi anni. Quest’anno, abbiamo inviato la circolare proprio perché i ragazzi ci hanno detto di avere molti impegni. A dicembre, concludendo la prima parte sulla calligrafia dei nomi, la circolare riguarda la seconda parte più avanzata. Abbiamo, così, pensato di approfittare della fine di Ramadan per riproporre il momento conviviale.

Nella nostra comunità scolastica la questione non ha creato nessuno scompiglio. Chiaramente estrapolata, la circolare è stata inviata alla stampa e travisata completamente. Il nostro non è un corso che insegna a mettersi il velo come simbolo religioso, ma uno di lingua in cui una delle attività è giocare con lo stile e l’abbigliamento.

Imposizione o libera scelta? Gli studenti difendono il corso

Nonostante le polemiche al di fuori della scuola, gli studenti hanno deciso di condividere sui loro account social un post in difesa del corso, per spiegare le ragioni che li hanno portati a chiedere un laboratorio di questo tipo.

Un messaggio chiaro e diretto contro tutti coloro che hanno accusato l’Istituto Bachelet di svolgere “finta inclusione” e di promuovere un’islamizzazione degli studenti. In realtà, come la stessa docente Quaglia conferma:

D: Tutto nell’ambito di una curiosità, giusto? A chiederlo sono stati gli studenti?

R: No assolutamente. Nessuna imposizione. Come poteva esserci un momento di henné e dunque su come si applica. Questi due elementi, Ramadan e hijab, sono stati presi e travisati. Fuori dal contesto, ci sono state mosse delle accuse insensate. È un corso di lingua e cultura, extrascolastico e facoltativo.

All’interno della scuola e delle famiglie non c’è mai stata nessuna critica, anzi, ne siamo orgogliosi perché piace e funziona, fa parte dell’ampliamento della nostra offerta formativa e, poi, è uno step di inclusione grande. Perché crea un’occasione per coetanei che si sentono distanti, di conoscersi meglio e avvicinarsi. Le ragazze nate in famiglie straniere si sentono più capite e possono spiegare i motivi delle loro scelte, si può anche discutere criticamente dell’uso del velo, in uno spazio sereno con dei docenti a moderare.

D: Il dito si è puntato contro la circolare diffusa, che faceva passare il corso come uno di hijab. Come è stato possibile che sia arrivata alla stampa?

R: La circolare è stata pubblicata sul registro elettronico, perché noi informiamo sempre le famiglie delle attività didattiche della scuola. Mi sorprende la polemica perché nessuno ha mai sollevato critiche sul progetto. È normale avere dubbi o chiedere chiarimenti, ma né a me che sono la referente, né in collegio docenti è stata mai sollevata alcuna obiezione.

Probabilmente per una serie di concause del momento storico attuale, le elezioni… non so, qualcuno ha pensato ha male interpretato la circolare. Credo che l’errore fondamentale sia stato non chiedere, né cercare una spiegazione qui. Si sono innestate polemiche sul vuoto.

Fra l’altro abbiamo una vivace vita politica a scuola e i rappresentati di Istituto hanno tenuto a pubblicare sul loro canale Instagram un comunicato in difesa del corso.

Il laboratorio nel contesto della lotta all’emancipazione in Iran

D: È sembrato anacronistico perché mentre in Iran si lotta per toglierlo, in Italia, invece, si insegna a metterlo

R: In realtà, si è trattato di curiosità riguardo ai diversi stili in cui si può acconciare il velo. Poi, voglio dire… sono adolescenti. Le loro compagne vanno in giro con la pancia scoperta, le ragazze musulmane, invece, preferiscono un trucco diverso, unghie di un certo tipo. Nell’ambito del decoro scolastico, loro si vestono sempre in pendant e il velo rappresenta un elemento caratteristico. La curiosità viene: “Come te lo metti?“, “Come ci stanno i capelli sotto?“, allora è stato un gioco nell’ambito dell’estrema libertà.

Sono ragazze che stanno crescendo e, proprio grazie alla libertà di cui godiamo in Italia, possono scegliere se indossarlo o meno. Infatti, ripeto, abbiamo ragazze che lo indossano e altre no. Nessuno dei due gruppetti è emarginato rispetto all’altro. Siamo fieri che ci sia un’agency, ovvero la possibilità di scegliere e autodeterminarsi. Per le ragazze che indossano il velo è anche un modo per farsi delle domande sulle loro scelte. Spesso viene chiesto loro: “Ma tuo papà si arrabbia se non lo metti?“. Quindi, possono farsi questa domanda e se lo mettono o meno è per loro scelta.