Ci sono storie che scuotono, restando impresse nella mente, come quella di Melania Rea, la donna che più di dieci anni fa fu uccisa dal marito mentre la figlia dormiva in un’auto parcheggiata a poca distanza al confine tra Abruzzo e Marche. Una storia che da tanti è stata assimilata a quella di Giulia Tramontano, che lo scorso maggio è stata uccisa dal compagno al settimo mese di gravidanza nella casa che condividevano a Senago, nel Milanese. Per raccontarla dobbiamo tornare al pomeriggio del 19 aprile del 2011.

La storia di Melania Rea e del suo femminicidio

La denuncia di scomparsa

Tutto iniziò, come spesso accade, con una telefonata al 112. Partì dal bar ristorante “Il Cacciatore”, conosciuto anche come bar “Segà”, situato in località Colle San Marco, ad Ascoli Piceno. Ad inoltrarla fu Giovanna Flammini, titolare, insieme al marito, del locale: all’operatore di turno raccontò di aver chiamato per conto di un uomo che poco prima era entrato con in braccio la figlia, un cliente occasionale che le aveva riferito di non riuscire più a rintracciare la moglie e che poi si era chiuso in bagno per un malore.

Quell’uomo era Salvatore Parolisi. Si sarebbe scoperto solo diverso tempo dopo che la moglie non era semplicemente scomparsa: era morta, lui l’aveva uccisa. Originario di Frattamaggiore, il 33enne era caporal maggiore del 235° reggimento piceno, di stanza presso la caserma Clemente. Con la moglie Carmela Rea, per tutti “Melania”, e la loro bambina di appena 18 mesi, Vittoria (che oggi ha cambiato il suo cognome in Rea), viveva a Folignano.

Melania Rea e Salvatore Parolisi
Melania Carmela Rea e Salvatore Parolisi con la bimba in una foto dell’archivio Ansa.

Quando i carabinieri arrivarono sul posto, poco dopo la telefonata che avevano ricevuto, quel giorno scrissero che l’uomo era in “evidente stato di agitazione”. Incalzato, raccontò loro che la 28enne era sparita dopo essersi allontanata per andare in bagno mentre lui e la figlia si trovavano nei pressi delle altalene, circa quaranta minuti prima della chiamata. Disse di non essersi reso conto del tempo che era trascorso e, interrogato circa il rapporto con la donna, aggiunse che non avevano problemi, che andavano “d’amore e d’accordo”.

Il ritrovamento del corpo e l’autopsia

Le ricerche partirono immediatamente. La svolta arrivò solo due giorni più tardi, quando il corpo della 28enne fu trovato senza vita accanto al chiosco della pineta delle Casermette, in località Ripe di Civitella del Tronto, in provincia di Teramo.

Era disteso a terra in posizione supina e presentava diverse ferite da punta e taglio: fu subito chiaro che la donna era stata uccisa, che qualcuno l’aveva accoltellata, incidendole sulla pelle una svastica e altri strani segni e infilzandole una siringa da insulina priva del contenuto nel cuore. Qualcuno, tra i carabinieri che intervennero, parlò di un brutale rituale. Altri accostarono il suo omicidio a quello di Rossella Goffo, che nel gennaio di quell’anno era stata trovata senza vita a Colle San Marco, ipotizzando che in zona si aggirasse un serial killer.

Nel suo rapporto il medico-legale incaricato di effettuare l’autopsia scrisse che Melania era morta dissanguata il giorno in cui era scomparsa, dopo essere stata aggredita con un coltello – sgozzata, quasi – e con un oggetto contundente, forse un cacciavite. L’assassino l’aveva lasciata agonizzante, ma ancora in vita, per poi tornare ad accanirsi su di lei qualche ora dopo. Forse, ipotizzarono gli inquirenti, stava tentando di depistare le indagini, manipolando la scena del crimine.

Le indagini, i sospetti su Salvatore Parolisi e l’arresto

Come da prassi, i carabinieri che stavano seguendo il caso iniziarono ad indagare sulla famiglia, in particolare sul marito di Melania. Il sospetto era che Salvatore stesse nascondendo qualcosa, perché, intercettato, aveva raccontato a dei conoscenti che appena due settimane prima della scomparsa di Melania, nel posto in cui il suo corpo era stato ritrovato, avevano fatto l’amore.

Il dubbio era che in questo modo volesse giustificare eventuali tracce che si sarebbero potute trovare dietro al chiosco di Civitella. Poi si scoprì che aveva mentito: che non era vero che lui e Melania andavano “d’amore e d’accordo”. Da diverso tempo frequentava una donna che era stata sua allieva in caserma: in due anni si erano scambiati migliaia di messaggi e di chiamate, venendo anche scoperti dalla moglie, che un giorno si era imbattuta nel telefono che l’uomo usava per contattare l’amante e l’aveva smascherato.

Anche i familiari erano a conoscenza della sua relazione extraconiugale, ma non volevano che si sapesse: per questo agli inquirenti avevano sempre detto di non aver notato nulla di strano, tra Melania e Salvatore. Si iniziò a pensare che il militare potesse aver ucciso la moglie nel tentativo di districarsi dalla situazione in cui era si era ritrovato promettendo all’amante che presto avrebbe lasciato la moglie e alla moglie che non l’avrebbe più tradita.

Il giorno di Pasqua avrebbe dovuto trovarsi in due posti diversi: a Somma Vesuviana, il paese d’origine di Melania, con la sua famiglia; e ad Amalfi, per conoscere i genitori dell’altra donna con cui si vedeva. Agli inquirenti però disse che la loro era solo una “storiella”: che non avrebbe mai lasciato Melania. Una versione che faceva acqua da tutte le parti. Il 19 luglio di quell’anno, pochi mesi dopo l’omicidio della donna, nei confronti dell’uomo fu emessa un’ordinanza di custodia cautelare in carcere.

Il processo e la condanna

Da una nuova perizia era emerso, a quel punto, che l’unica traccia biologica trovata sul corpo della 28enne, repertata sulla sua arcata dentale, era il Dna appartenente al marito: si ipotizzò che Salvatore l’avesse baciata o che le avesse messo una mano sulla bocca per impedirle di urlare mentre la colpiva, al culmine di una lite scoppiata perché forse lei gli aveva negato un rapporto sessuale dopo essersi appartata per soddisfare i propri bisogni fisiologici.

Quando fu aggredita aveva i collant e gli slip abbassati: non poteva correre. Cercò di difendersi come poté, ma invano. La figlia dormiva in auto a poca distanza. Parolisi finì a processo e scelse il rito abbreviato (che nel 2019 è stato reso inaccessibile per chi è imputato di reati che possono comportare l’ergastolo, come gli omicidi commessi in famiglia). Fu condannato comunque al massimo della pena, perché i giudici gli riconobbero – come chiesto dal Pm – le aggravanti del vincolo parentale e della crudeltà.

Poi, al termine del secondo processo d’appello, la seconda cadde (perché fu ritenuta “incompatibile” con il dolo d’impeto riconosciuto all’imputato) e la pena scese prima a 30 e poi a 20 anni di carcere, diventando infine definitiva. Da quel giorno sono passati più di 12 anni, ma l’uomo – che è recluso a Bollate – non ha mai smesso di proclamarsi innocente, attirando più di una volta su di sé le polemiche (come quando, la scorsa estate, rilasciò un’intervista alla trasmissione televisiva “Chi l’ha visto?” mentre era in permesso premio). La storia di cui si è reso protagonista è rimasta impressa nella mente di molti come tanti altri femminicidi.

Parleranno di violenza di genere Fabio Camillacci e Gabriele Raho nella prossima puntata di “Crimini e criminologia”, che andrà in onda su Cusano Italia Tv (canale 122 del digitale terrestre) domenica 7 aprile dalle 21.30 alle 23.30.