Nel corso degli ultimi anni un gran numero di exchange di criptovalute si è inabissato, portandosi a fondo centinaia di miliardi dei propri clienti. L’ultimo clamoroso caso, in tal senso, è quello rappresentato da FTX, lo scambio centralizzato lanciato da Sam Bankman-Fried, la cui vicenda giudiziaria ha per ora prodotto 25 anni di carcere per l’ex enfant prodige dell’innovazione finanziaria, in attesa di capire di quanto potranno rientrare gli investitori danneggiati.

Proprio per cercare di evitare vicende di questo genere, chi ha intenzione di fare trading di valuta virtuale dovrebbe informarsi al meglio. Magari partendo da una domanda chiave: cosa accade quando fallisce un exchange di criptovalute?

Cosa accade quando fallisce un exchange crypto?

Per fallimento di uno scambio di criptovalute, si intende la pratica impossibilità dello stesso di pagare i propri debiti o far fronte ai propri obblighi finanziari nei confronti dei propri clienti e creditori. Una volta che l’evento sia avvenuto, le sue conseguenze vanno a dipendere in larga parte dal Paese in cui la piattaforma operava. Ogni giurisdizione, infatti, prevede proprie norme per far fronte a disastri commerciali di questo genere.

Per quanto riguarda gli Stati Uniti, ove è crollato FTX, a regolare la materia sono due norme:

  • chapter 11, il quale riorganizza gli asset detenuti all’atto del crollo;
  • chapter 7, che provvede invece alla loro liquidazione.

Si tratta dei due provvedimenti su cui è imperniato il codice fallimentare degli Stati Uniti. Il primo va a mettere in campo un programma di rimborso tale da consentire alla società di restare redditizia durante il piano di rientro dai propri debiti, mentre gli investitori interessati hanno la possibilità di utilizzarlo al fine di salvare il salvabile.

La catena dei pagamenti previsti, però, prevede che le risorse rimanenti vadano prima a liquidare i creditori privilegiati, ovvero le grandi istituzioni come banche o obbligazionisti. Una volta condotta a termine questa prima fase, ciò che rimane viene destinato ai creditori non garantiti, ovvero i clienti dell’exchange.

In pratica, quindi, proprio i clienti rappresentano l’ultima ruota del carro: non solo devono attendere il pagamento dei creditori privilegiati, ma possono recuperare soltanto una parte dei propri asset, da ciò che resta.

Lo stesso modus operandi che distingue la liquidazione dei beni disposto dal chapter 7. Anche in questo caso i creditori garantiti sono pagati prima di quelli non garantiti. Proprio in questo risiede la pericolosità degli exchange centralizzati (CEX), poiché chi vuole commerciare al loro interno deve lasciare le chiavi private dei propri token.

È possibile recuperare fondi da un exchange fallito?

Abbiamo ricordato qual è il grande rischio prospettato dagli exchange centralizzati: detenendo le chiavi private, vanno in pratica ad assumere il controllo dei token loro affidati. Un obbligo che non sussiste coi DEX (Decentralized Exchange), ove basta collegare il proprio wallet alla piattaforma per fare trading P2P.

Cosa significa questo? Molto semplicemente, una cosa: se falliscono per la legge è proprio l’exchange ad essere il considerato il proprietario degli asset. Con una logica conseguenza, il loro andare a finire nel calderone della massa da cui attingerà il curatore fallimentare, per pagare i debiti insoluti.

Per evitare un esito di questo genere, gli investitori possono rivolgersi al tribunale fallimentare. Una via tentata da molti, a partire da coloro che sono rimasti coinvolti nel celebre crac di Mt. Gox, il più grande scambio globale fallito nel 2014. I clienti danneggiati sono potuti rientrare in possesso di una parte dei propri asset soltanto a distanza di molti anni. E, soprattutto, lo hanno potuto fare solo per una parte di quanto effettivamente posseduto al momento del fallimento.

Gli investimenti in criptovaluta sono protetti dai governi?

Gli investimenti in criptovaluta possono essere protetti dai governi, ma con un dispositivo molto meno robusto di quello spettante ai conti correnti bancari. Si tratta di una conseguenza della mancanza di un quadro normativo relativo all’innovazione finanziaria, in molte parti del mondo.

Negli Stati Uniti, ad esempio, gli investimenti in criptovalute non rientrano nel raggio d’azione della Federal Deposit Insurance Corporation (FDIC) o di altri programmi assicurativi sostenuti dal governo, diversamente dai tradizionali depositi bancari. Ciò vuol dire che gli investitori crypto potrebbero non godere delle stesse tutele o garanzie legali spettanti a chi investe nelle attività finanziarie tradizionali.

La FDIC è stata istituita a seguito del Banking Act del 1933 nell’intento di ricostruire la fiducia nelle banche dopo la Grande Depressione. Fornisce copertura assicurativa sui depositi, sovrintende gli istituti finanziari al fine di garantirne la sicurezza e gestisce le amministrazioni controllate, uno strumento utilizzato dal tribunale per coadiuvare i creditori nella fase di denaro o beni loro spettanti.

Lo scudo che utilizza, però, si ferma alla soglia dei 250mila dollari. In pratica sino a quel livello rimborsa gli aventi diritto, mentre ogni dollaro che la oltrepassi è praticamente perso. Se nel futuro verrà implementata una nuova legislazione per le criptovalute, è probabile che tale soglia sarà usata anche per i crac del settore.

Il discorso che abbiamo fatto, vale naturalmente per i cittadini statunitensi. Gli italiani che hanno perso soldi nel fallimento di Bitgrail ancora sono in attesa di poter rientrare dei propri beni. Un’attesa resa tale dal vero e proprio caos che distingueva la piattaforma. L’exchange, infatti, non controllava l’identità del registrante e non teneva traccia degli indirizzi Ip utilizzati in fase di registrazione. Le incertezze che ne sono generate rendono quindi dimostrare la qualità di creditore.