Debutto al cinema, col primo lungometraggio, per il regista Loris Lai che sceglie di raccontare un tema delicato e dolorosissimo: l’infanzia vissuta dai bambini di Gaza, costretti a crescere sotto i bombardamenti. Con un linguaggio a volte crudo e a volte delicato, questo film ci mostra una realtà che nessuno è pronto ad affrontare della quale però siamo tutti, indistintamente, un po’ responsabili. Ma questa storia, tra miseria e disperazione, getta anche il seme della speranza che, se pur a fatica, comincia a germogliare.

“I Bambini di Gaza”, recensione

Gaza, 2003. Tra cumuli di macerie ed edifici fantasma che appaiono come blocchi di cemento abbandonati, un gruppo di bambini col volto sporco di terra e polvere giocano come impassibili davanti a quel terribile scenario di guerra. Della Palestina è rimasto poco e niente: ormai è un Paese nel quale si cresce sotto un cielo illuminato dalle bombe, abbandonati a se stessi, tra i fumi tossici delle esplosioni e dove invecchiare sembra impossibile. Quasi la metà della popolazione ha meno di quattordici anni. Il tempo di ogni giornata è scandito dal rumore dei colpi di fucile e dalle sirene del coprifuoco che all’improvviso suonano all’impazzata.

Mahmud (Marwan Hamdan) ha circa tredici anni, vive da solo con la madre Farah (Lyna Khoudri). Suo padre è morto e l’unico aiuto in casa è rimasto lui. È bello Mahmud, con la carnagione ambrata che sotto la luce del sole brilla, ha i capelli castani e il nasino rotondo. Ha il viso perfetto per fare l’attore, gli esplode in petto la tipica vivacità ballerina della giovinezza, ma ha già lo sguardo assorto e disincantato da uomo adulto che ha visto più cose di quante un essere umano dovrebbe. È intelligente, sfrontato, testardo, con quella caparbietà dura e cruda che viene giustificata soltanto ai maschi. Aiuta la madre a vendere le spezie al mercato, è bravo a scuola, sa come muoversi tra le rovine di una città distrutta, ma per quanto possa sembrare forte Mahmud è soltanto un ragazzino e ancora non riesce a capire fino in fondo cosa sia la morte.

Il mare è l’unico luogo dove può sentirsi libero, sfuggendo da una terra che lo tiene incatenato a una prigione a cielo aperto dove ogni giornata, più che in ogni altro luogo al mondo, è una sfida continua a restare vivi. Ha iniziato a fare surf e sulle spiagge di Gaza conosce Alon (Mikhael Fridel), anche lui all’incirca tredicenne, che sta cercando pure lui di imparare a surfare. Timidamente tra i due nasce una sorta di amicizia che si sviluppa lungo le tavole di legno che li tengono in piedi sopra le onde, ma Alon è biondo, con la carnagione troppo chiara per essere palestinese. Un giorno Mahmud lo segue di nascosto fino a casa e scopre che Alon è un israeliano rifugiato poco fuori la città con la sua famiglia. Questa scoperta genera in Mahmud dei sentimenti misti di repulsione e odio, ma anche di smarrimento perché non riesce proprio a capire come abbia potuto sentirsi vicino a qualcuno che appartiene a un popolo che gli ha rovinato la vita. Ma Alon è un bambino gentile, dall’animo sensibile e profondo come le acque nelle quali quasi ogni giorno si immerge per cercare un po’ di pace per la sua mente turbata. Lui non odia, non ne è capace e soprattutto non riesce a odiare il suo nuovo amico.

In un pomeriggio soleggiato in spiaggia entrambi si imbattono in Dan (Tom Rhys Harries), conosciuto da tutti come il Fantasma di Gaza. Quest’ultimo è un ex campione di surf professionista caduto in disgrazia, risucchiato da un vortice di depressione e abuso di farmaci. Dan è rimasto solo, ha perso la sorella in un attentato mentre faceva la volontaria per gli aiuti umanitari. Conserva ancora la sua bellezza, col fisico atletico, i capelli biondissimi e la pelle color latte, gli occhi verdi e le guance nascoste da un fitto strato di peli chiari, ma ha in volto l’espressione devastata di chi ha perso la vita se pur rimanendo vigile.
Mahmud e Aron con un po’ di insistenza capricciosa lo convincono a dargli lezioni di surf.

Questo nuovo trio, ciascuno a modo suo, imparerà a misurarsi con le disgrazie e le realtà altrui ritrovando la forza e la voglia di sognare un futuro che può essere ancora migliore.

“I Bambini di Gaza”, critica

Il regista Loris Lai debutta alla regia col suo primo film intitolato “I Bambini di Gaza”. Questa pellicola drammatica e brutale ci mostra senza filtri la quotidianità di chi vive in territorio di guerra, incessantemente oppresso dagli attacchi bellici. Ma ci racconta anche le personalità singole delle persone che vivono in un luogo dove ci si dimentica che ogni essere umano ha una storia e una sua individualità, finendo col vederli tutti come un unico gruppo senza identità. Ci permette di dare uno sguardo al modo in cui crescono i bambini in una terra dove non c’è tempo per la forma o l’educazione, ma c’è solo la continua ricerca della salvezza a ogni costo cercando di sopravvivere a un inferno di disperazione e miseria.

Ci svela anche l’altra faccia della medaglia, ovvero la manipolazione che cercano di attuare i terroristi per convincere i ragazzini più piccoli a unirsi a loro offrendosi come martiri per farsi esplodere, per cercare di mettere in ginocchio l’esercito israeliano. Ci parla della scelta fra il bene e il male, di redenzione, di generosità e altruismo, ma anche di come al di là della guerra ognuno di noi porta dentro di sé dei dolori che hanno lo stesso peso di quelli degli altri.

Affronta inoltre, in modo acuto e preciso, come anche i bambini che nascono e crescono in zone di conflitto non siano poi capaci, alla fine, di comprendere e sentire fino in fondo la grandezza della morte. Perché un bambino, di qualunque luogo, non ha e non dovrebbe avere mai gli strumenti per capire cosa sia questo trapasso definitivo e la perdita delle persone care. L’ingenuità, a volte involontariamente egoista, li porta a camminare tra le rovine degli edifici appena esplosi in cerca di qualcosa da portare via, un piccolo pezzo da rendere proprio che fino a un istante prima apparteneva a qualcun altro che adesso è morto.

Per finire ci parla anche dell’odio, feroce e sadico, che come una lama di coltello ti pugnala dritto al petto con violenza fino a romperti il costato. Ma l’odio non è figlio delle religioni, non nasce in grembo alla fede; è frutto della sofferenza degli uomini che, stanchi, perdono l’umanità accecati dal proprio dolore.