Presentiamo di seguito come inserto straordinario della rubrica “Non solo trentatré”, un contributo del prof. Enrico Ferri, curatore editoriale della rubrica, di cui è supervisore scientifico il dottor. Claudio Loffreda Mancinelli (Pittsburgh, Pennsylvania).

Il professor Ferri, ordinario di Filosofia del Diritto all’Unicusano, ha collaborato come pubblicista a vari quotidiani nazionali come Il Messaggero, l’Unità e Il Tempo e ha svolto conferenze e lezioni in varie università europee, del Nord Africa e del Medio Oriente. Suoi saggi e libri sono pubblicati in varie lingue, in Europa e negli USA. È promotore della SEA, la Scuola Estiva Arpinate, di cui quest’anno si terrà la dodicesima edizione. In quest’occasione ci offre una testimonianza di un soggiorno al Policlinico Agostino Gemelli, per un intervento chirurgico a cui è stato recentemente sottoposto. Il Policlinico Gemelli è stato considerato, da una recente inchiesta di Newsweek, il miglior ospedale italiano.

enrico ferri
Prof. Enrico Ferri, docente di Filosofia del diritto all’Unicusano

Policlinico Gemelli, la testimonianza del Prof. Enrico Ferri

Se una sera accade, come è accaduto a me, di alzarsi dal divano e scoprire sul lato destro dell’inguine una sgradevole protuberanza simile ad un wurstel, non resta che recarsi al proprio medico di base e se l’ecografia consigliata evidenzia un “ernia bilaterale inguinale”, occorre cercare un bravo specialista per una visita ed un eventuale intervento chirurgico.

E qui le cose si complicano. A chi rivolgersi per un’indicazione competente e che rifletta specifiche esigenze, in questo caso le mie? Logica vorrebbe che, almeno in prima istanza, ci si indirizzi al proprio medico di base, nel mio caso la valida dottoressa Giuseppina Lavalle. Ma non sempre quest’ultimo/a ha una visione d’insieme del sistema ospedaliero di una realtà come Roma, con relative eccellenze nelle diverse e molteplici branchie della medicina. Perché di questo si trattava: trovare un bravo chirurgo, se possibile più che bravo, nel mio caso un gastroenterologo, che operasse in una struttura ospedaliera altrettanto valida e in tempi non biblici.

In questo frangente due cose mi sono state d’aiuto: Harmonie Mutuelle, la mia assicurazione sanitaria e il suo agente di riferimento, il dottor Bernardino Grillandini della Phenix Insurance Broker di Frosinone. Poi la mia professione mi ha permesso di scegliere il chirurgo e la struttura  ospedaliera , di avere gli strumenti per valutare le competenze di un ricercatore, anche se in ambiti diversi dai miei. Sono i suoi titoli e il suo curriculum che fanno la differenza e non ci si deve neanche affaticare per valutarli, ci pensa la comunità scientifica, dentro e fuori i confini nazionali.

Non è stata lunga la ricerca dello specialista, Sergio Alfieri, professore ordinario in chirurgia addominale, scelta confermata da fatto che opera come ricercatore, diagnostico e chirurgo nel Policlinico Agostino Gemelli, struttura convenzionata con Harmonie Mutuelle,  che ha tra i suoi settori di punta la medicina della donna, il settore oncologico, il cardiovascolare e, non ultima, l’area della chirurgia gastrointestinale e metabolica. L’intervento è avvenuto nel giro di qualche settimana, grazie al fatto che appartenevo alla categoria dei “solventi”, di quanti cioè si affidano alle proprie risorse o hanno un’assicurazione privata, come nel mio caso. I tempi di attesa sono uno dei problemi della sanità italiana, problema serio soprattutto quando riguarda patologie gravi.

Sergio Alfieri, professore ordinario in chirurgia addominale

Alcuni amici e conoscenti hanno considerato eccessiva la mia cautela nella ricerca del chirurgo, sottolineando che quello all’ernia inguinale è un “intervento di routine”, la patologia più diffusa fra i maschi. Un intervento che si fa in Day hospital, “che tutti i chirurgi fanno”. Mi è capitato, allo stesso tempo, di parlare con persone, come Cinzia, una mia amica di vecchia data, o una dirigente dell’Università in cui insegno, che hanno lamentato, dopo un intervento all’ernia inguinale, una ridotta mobilità della gamba sinistra, a conferma del fatto che quando si entra in una sala operatoria l’esito dell’intervento dipende da fattori molteplici ed interdipendenti: le condizioni generali e l’età del paziente, la competenza e l’esperienza del chirurgo e del suo staff , il tipo di patologia su cui intervenire, quello che “si trova” nel corso dell’intervento.

Là dove, come nella chirurgia, è importante l’elemento umano, hanno un peso anche la serietà professionale e il senso del dovere del chirurgo, cioè uno stile di vita ineccepibile, che gli garantisca sempre lucidità, capacità reattiva e resistenza a ritmi di lavoro che comportano sforzo fisico e costante concentrazione, cioè livelli di stress inevitabili.

Entrare in una struttura ospedaliera per un intervento chirurgico, anche relativamente “facile”, è sempre un’esperienza che coinvolge e colpisce. Nello specifico, si impiega un po’ per adattarsi ad una realtà come il Policlinico Gemelli, una cittadella/ospedale in cui orbitano ogni giorno 20.000 persone e che per orientarsi mette a disposizione dei suoi utenti un’applicazione che si chiama Arianna, nomen omen è il caso di dire. Il disorientamento deriva anche dal fatto che il paziente, termine che mi sembra una sintesi fra pazienza e patimento, vive di fatto una condizione di depressione, quella di chi soffre per una patologia che va affrontata e possibilmente rimossa, attraverso tempi e procedure che conosce solo de relato, come spesso conosce solo superficialmente e per sintesi divulgative la stessa patologia di cui soffre.   

Il paziente è come la matricola universitaria, che vuole essere riconosciuta, ascoltata e rinfrancata dal professore: chiede vicinanza e sostegno emotivo prima di tutto. Vuole capire quello che lo aspetta ed essere rassicurato sugli esiti. Per certi versi è come un bambino e non a caso il linguaggio usato da infermieri e clinici è infarcito di diminutivi e vezzeggiativi – “pillolina”, “punturina”, “esamino”, ecc.- per sminuire patologie e possibili criticità. Esiste un altro modo per rassicurare, o almeno per rendere partecipe il paziente: informarlo costantemente delle procedure a cui è sottoposto e del programma di cura ed intervento. Un modo di agire che viene evocato fin dall’antichità, ad esempio da Platone ne “Le Leggi” e che modernamente chiamiamo “consenso informato”. Ma non si tratta solo di “informare”, quanto piuttosto, attraverso il colloquio con il paziente, di dargli l’idea che la sua situazione è sotto controllo e costantemente monitorata, e che le evenienze sul piano clinico saranno affrontate in modo tempestivo ed accurato.

Questa sensazione è prodotta da un insieme di fattori: l’atteggiamento dello staff medico ed infermieristico, l’ambiente del ricovero, l’attenzione mostrata verso il paziente, la funzionalità e l’efficacia della struttura ospedaliera. Se è relativamente facile fare un elenco dei bisogni e delle aspettative del paziente, non altrettanto semplice è definire la realtà di una struttura ospedaliera di grandi dimensioni, che è condizionata da problematiche politiche, sociali, economiche e che opera secondo criteri simili a quelli di una grande impresa ed insieme nelle vesti di un ente no-profit in settori come la ricerca, la sperimentazione o la beneficenza.  

Policlinico Agostino Gemelli di Roma

Al policlinico Agostino Gemelli si riesce bene a conciliare attenzione verso il paziente e funzionalità amministrativa ed operativa. Va pure detto che questa sensazione nasce da una prospettiva privilegiata, quella di un paziente “solvente”.

Nei giorni passati al Gemelli (dal pomeriggio del 18 marzo alla mattina del 20) ho sperimentato la presenza costante, ma discreta, degli infermieri in un ambiente pulito, sobriamente elegante, funzionale e  tranquillo. Lo staff medico che mi ha informato prima e dopo l’intervento sui vari step e il professor Alfieri prima dell’intervento mi ha rassicurato con un sorriso e uno “stia tranquillo”. Io in realtà ero tranquillo, come aveva notato l’anestesista, il dottor Andrea Cataldo che mi ha assistito nella non breve attesa nei pressi della sala operatoria. Forse un piccolo elemento di ansia, mi si passi la battuta, era stato indotto da qualche “buona fortuna” di troppo, arrivato come forma di cortesia e di augurio da infermieri e medici, auguri ai quali avrei voluto rispondere: “Signori, sono qui perché mi affido alla scienza ed all’arte medica e non alla fortuna”. L’intervento è stato eseguito con la labaroscopia e in anestesia generale. Al risveglio non avevo dolori particolari. La notte ho dormito bene e la mattina alle 10, dopo aver sentito le indicazioni dal dottor Claudio Fiorillo, Aiuto del Primario, mi sono rivestito ed ero pronto per uscire. In quel frangente è entrata la responsabile degli infermieri, la dottoressa (in Scienze infermieristiche) Anna Lisa Ricci che mi ha chiesto: “Lei è un parente del paziente?”. “Si, il gemello, ho risposto sorridendo”.

Tornato a casa non ho avuto particolari problemi, ho mandato il resoconto dell’intervento a due miei ex compagni di scuola per un loro parere: il dottor Gianni Iafrate stimato chirurgo di lungo corso all’ospedale di Sora, esperto soprattutto nella chirurgia oncologica al seno, che ha giudicato il referto “chiaro e dettagliato”, ma anche l’altro nostro ex compagno di liceo, il dottor Claudio Loffreda Mancinelli, con una pluridecennale esperienza di anestesista a Pittsburgh, lo ha definito “del tutto esaustivo”. Due volte è venuta Paola, infermiera al San Giovanni e mia coinquilina, a medicarmi le ferite post-operatorie, quasi invisibili, e le ha definite “pulitissime”.

Voglio concludere con una nota critica e un augurio. Margini di miglioramento? Sicuramente. Nella mia limitata esperienza mi è parso di capire che vanno migliorati alcuni meccanismi di comunicazione. Ad esempio, alla vigilia dell’intervento mi è stato detto che l’intervento era stato anticipato di un giorno. Questa comunicazione non mi era arrivata, o semplicemente l’avevo persa. Va verificata la recezione degli avvisi al paziente, anche se l’inconveniente è stato recuperato senza conseguenze. È durata troppo l’attesa nei locali contigui alla sala operatoria, disfunzione di cui correttamente il prof. Alfieri si è scusato. Così come, prima di lasciare l’ospedale, mi era stato consigliato di prendere un farmaco alla farmacia interna, ma dopo l’attesa, seppure di pochi minuti, è risultato che la farmacia ne era sprovvista.

Il mio augurio è che, considerando l’età relativamente giovane del professor Alfieri e la crescita dell’aspettativa di vita e di lavoro, i pazienti  di tale branca della medicina possano fruire a lungo della competenza e della dedizione di questo Clinico e di quanti si sono formati e si formeranno alla sua Scuola.  

Prof. Enrico Ferri, Unicusano