L’Islanda è considerato un vero e proprio paradiso per il mining di criptovalute. La disponibilità di grandi riserve di energia rinnovabile, in particolare, ha spinto nel corso degli ultimi anni molte aziende minerarie a stabilirsi sull’isola.

Ora, però, la situazione sembra sul punto di modificarsi profondamente. Il governo locale, infatti, sembra intenzionato ad abbandonare i minatori di criptovaluta e concentrarsi invece sulla sicurezza alimentare. Una decisione derivante in particolare dal fatto che l’elettricità inizia a scarseggiare, rendendo obbligatorie decisioni forti in tal senso. Ad affermarlo è stata il primo ministro Katrín Jakobsdóttir.

L’Islanda sta per abbandonare il mining di criptovalute?

L’Islanda potrebbe presto sloggiare dal suo territorio le mining farm che vi si sono impiantate nel corso degli ultimi anni. L’ipotesi è stata ventilata da Katrín Jakobsdóttir nel corso di un’intervista rilasciata al Financial Times.

In particolare, Jakobsdóttir ha affermato che stanno montando le preoccupazioni sulla sostenibilità energetica, in quanto alcune industrie, che stanno vivendo carenze di energia nel corso dell’inverno, hanno iniziato a ricorrere a fonti energetiche non rinnovabili.

Occorre ricordare che per effetto della sua posizione in cima alla dorsale medio-atlantica, l’Islanda dispone di grandi quantità di energia rinnovabile. Una caratteristica la quale ha spinto molti minatori di Bitcoin a far rotta sull’isola, nel corso degli ultimi anni, in particolare dopo il bando della Cina al mining.

Ora, però, le richieste sono talmente aumentate che potrebbero mettere in pericolo altre attività molto più essenziali, a partire dall’agricoltura. Per impedire agli agricoltori di pagare il prezzo di scelte sbagliate, il governo islandese sta quindi prendendo in considerazione l’idea di abbandonare o, perlomeno, ridimensionare il mining.

L’Islanda è il primo produttore mondiale di hashrate pro capite

“Bitcoin è un problema mondiale… ma i data center in Islanda utilizzano una quota significativa della nostra energia verde”: queste le parole espresse dal Premier islandese al Financial Times. Un’affermazione che non teme smentite, poiché l’Islanda è ormai il il primo produttore mondiale di hashrate Bitcoin pro capite. Il consumo di energia del Paese, infatti, si attesta a circa 120 MW, gran parte del quale sfruttato dai minatori di Bitcoin.

A fronte di questo dato, ce n’è un altro che ha iniziato a provocare non poche discussioni: l’Islanda, infatti, produce appena l’1% dei cereali consumati al suo interno e solo il 43% delle verdure. Secondo le istituzioni locali è una situazione squilibrata, cui occorre prestare rimedio al più presto. La strada individuata è quella di un trasferimento di energia rinnovabile lontano dall’industria mineraria delle criptovalute, verso altri settori.

Il Nord Europa e il mining: un rapporto molto contrastato

La decisione dell’Islanda di riconsiderare il proprio settore minerario di Bitcoin conferma l’atteggiamento sempre più critico del Nord Europa nei confronti del mining di criptovalute. In particolare verso quello condotto tramite Proof-of-Work, considerato un vero e proprio attentato all’ambiente.

Nella crociata si è distinto in particolare il governo svedese. Nelle discussioni sul Markets in Crypto Assets (MiCA), il nuovo regolamento europeo sugli asset digitali, il governo di Stoccolma ha infatti cercato di inserire il bando all’attività mineraria, senza però riuscire a condurre in porto la sua missione.

Naturalmente, l’impostazione svedese ha provocato non poche rimostranze nelle aziende dedite al mining. La loro risposta si è tradotta nella pubblicazione di dati che dimostrerebbero come sia ormai largamente prevalente l’utilizzo di energia proveniente da fonti rinnovabili. Nel caso islandese, però, emerge che le altre industrie non riescono a reperire l’energia di cui necessitano, facendo ricorso a quella prodotta con fonti non rinnovabili.

Non è difficile immaginare che nel futuro la Svezia proverà di nuovo a riproporre il tema, forte dell’appoggio della Norvegia. L’Islanda, però, sembra aver scelto un approccio più concreto, senza furori ideologici, privilegiando un settore ritenuto molto più strategico come l’agricoltura. Una strada che potrebbe rivelarsi molto più proficua.