Lo scorso giovedì 14 marzo è uscito nelle sale italiane “Inshallah a Boy”, film diretto da Amjad Al Rasheed.
Questa drammatica pellicola racconta la toccante storia di Nawal, donna rimasta improvvisamente vedova, che dovrà misurarsi con le realtà fortemente maschiliste della società giordana e delle leggi della sharia.

“Inshallah a Boy”, recensione

Nawal (Mouna Hawa) ha circa trent’anni, vive in Giordania e lavora in nero come badante presso un’abitazione privata. È di religione musulmana, ha una splendida carnagione ambrata, gli occhi scuri dalla forma allungata e lo sguardo fortemente espressivo. Nasconde una folta chioma castana di lunghi capelli ricci sotto l’hijab e possiede una particolare bellezza orientale.

È sposata con Adnan (Mohammad Ghassan), che lavora a tempo pieno in una copisteria.
Hanno una figlia ancora piccola di nome Nora (Celina Rabab’a), col viso tondo, gli occhi e i capelli neri e il nasino all’insù. Marito e moglie stanno cercando di avere un secondo figlio, nonostante i problemi di fertilità di lui.
Tutto sembra scorrere tranquillo in quella che appare come una normalissima quotidianità familiare, ma una notte, dopo aver messo a letto la bambina, Nawal e Adnan andranno a dormire e lui purtroppo non si sveglierà mai più. Al mattino seguente infatti mamma e figlia scopriranno il suo corpo senza vita, morto evidentemente nel sonno.

Nawal è distrutta, ma non dispone nemmeno del tempo per metabolizzare questo cupo tormento insopportabile che l’ha colpita bruscamente, come una pugnalata dritta al petto.
Ormai vedova deve restare forte per prendersi cura di Nora, ancora troppo piccola per realizzare a pieno cosa sia davvero la morte.
In una folla di gente che, tra una visita e l’altra durante la veglia funebre, le invade caoticamente la casa girandole intorno non ha un attimo per poter piangere il suo dolore in silenzio. Non può permettersi neanche di assentarsi dal lavoro: non avendo un contratto registrato non ha diritto alle ferie, ai giorni di malattia, al congedo per lutto parentale.
A stento si regge in piedi, ma con gli occhi cerchiati e arrossati dal pianto terrà duro tirando le fila di una vita divenuta opprimente all’improvviso.

Ed è proprio nel caos della frenetica irrequietezza di un’esistenza da madre rimasta sola che non soltanto non avrà degli aiuti concreti, ma dovrà misurarsi con un’altra sciagura che si abbatterà ulteriormente sulle sue faticosissime giornate.
Sì, perché sarà proprio qui che subdolamente si insinuerà Rifqi (Hitham Omari), fratello dell’ormai defunto Adnan, che in un crescendo di meschina malvagità reclamerà parte dell’eredità lasciata a Nawal dal marito, rivendicandone il diritto a causa della sharia.

Neanche il fratello di lei, Ahmad (Mohammed Al Jizawi), le sarà di grosso aiuto e si ritroverà a dover sopravvivere, minacciata di perdere anche la custodia della figlia, in un universo maschile che non contempla alcun diritto per le donne neppure se sono le loro mogli, madri, o sorelle.

“Inshallah a Boy”, critica

Con “Inshallah a Boy” debutta al cinema Amjad Al Rasheed col suo primo film da regista.
Nato ad Amman in Giordania a giugno dell’85, ha dichiarato in diverse interviste di essere stato ispirato per la realizzazione di questo lungometraggio da una storia che ha colpito da vicino qualcuno al quale è molto legato. Ma ha anche espresso che secondo lui questa è una vicenda che riguarda ciascuno di noi, perché tutt’oggi in ancora troppi Paesi le donne non possiedono le libertà necessarie per poter vivere dignitosamente e in maniera totalmente indipendente.

Questa durissima pellicola affronta senza filtri l’annosa questione della mancanza di diritti per le donne in Medioriente e della complessa serie di leggi islamiche legate alla sharia.
Ad esempio, come in questa tristissima narrazione, una moglie perde buona parte dell’eredità lasciatale dal consorte se non hanno avuto alcun figlio maschio dovendo, di fatto, cederne una percentuale ai parenti più prossimi del caro estinto.

Dall’istante in cui ho visto il trailer di “Inshallah a Boy” mi sono sentita colpita da un insopportabile peso simile a un pugno alla gola e da un’irrefrenabile voglia di vedere questo film il prima possibile.
Per quanto mi aspettassi un leggero pathos in più, non posso non consigliare caldamente la visione di questa pellicola drammatica e struggente, alla quale mi sento personalmente di assegnare quattro stelle su cinque.

Ho provato un fortissimo dolore, un insostenibile rabbia e un opprimente senso di fastidio davanti allo spettacolo di una giovane mamma che deve inspiegabilmente lottare per mantenere ciò che le appartiene, potestà genitoriale compresa.
Tutto questo non può non ricordarmi quanto sia difficile, ancora oggi, essere donne in un mondo per uomini soltanto creato dagli uomini stessi.