Lo scorso 7 dicembre i giudici della Corte d’Assise del tribunale di Brescia hanno condannato al massimo della pena, l’ergastolo, sia Paola e Silvia Zani che Mirto Milani, accusati di aver ucciso in concorso l’ex vigilessa Laura Ziliani nell’abitazione che condivideva con le due figlie a Temù. Stando alle motivazioni, depositate oggi, i tre avrebbero infatti “agito di concerto”, come un’entità “unica e indivisibile”.
Le motivazioni della sentenza con cui Paola e Silvia Zani e Mirto Milano sono stati condannati all’ergastolo
I tre erano stati arrestati il 24 settembre del 2021 perché sospettati di aver preso parte in maniera congiunta all’omicidio premeditato della madre delle due ragazze, Laura Ziliani, scomparsa e poi trovata morta a Temù, in provincia di Brescia. Finiti a processo, si sono più volte accusati l’un l’altro, cercando di ridimensionare il proprio contributo al delitto.
Secondo i giudici della Corte d’Assise, che alla fine hanno condannato tutti e tre all’ergastolo, avrebbero invece agito come un’entità “unica e indivisibile”, stordendo la donna con dei farmaci per poi soffocarla nell’abitazione in cui viveva ed occultarne il corpo con lo scopo di “gratificare l’ego del gruppo e celebrare adeguatamente la loro coesione” più che per questioni economiche o di odio nei confronti della vittima.
Inizialmente si erano proclamati innocenti; poi avevano confessato, ammettendo di aver aggredito a morte la donna per paura che li avvelenasse. A quel punto a loro carico c’erano, però, “elementi indiziari di elevata pregnanza dimostrativa tali da comprometterne la posizione” per i giudici, secondo cui in pratica i tre avrebbero parlato solo perché messi alle strette dalle indagini e non perché “pentiti” di ciò che avevano fatto.
I tre hanno agito di concerto tra loro concorrendo a comporre, ciascuno per la propria parte, il mosaico del progetto criminoso. Mirto, che pure si è mostrato all’interno del gruppo l’elemento più fragile ed il meno convinto nel portare termine l’uccisione della Ziliani, ne è divenuto di fatto l’autore materiale ponendo per ultimo ‘la mano grande‘ sul collo della vittima,
si legge nelle motivazioni, in cui viene anche ribadita la totale capacità di intendere e di volere dei tre al momento dei fatti, organizzati nei minimi dettagli prendendo spunto da serie tv in modo “grottesco” e “nella convinzione di non essere scoperti”.
La storia di Laura Ziliani, scomparsa e poi trovata morta
A denunciare la scomparsa di Luara Ziliani, sostenendo che fosse uscita per una passeggiata in montagna e che non avesse mai fatto ritorno, furono proprio le figlie Paola e Silvia. Era l’8 maggio del 2021. Tre mesi dopo un bambino in gita con i genitori si imbattè nel corpo della donna dietro a un cespuglio lungo l’argine del fiume Oglio, dando l’allarme.
L’autopsia rivelò che era morta per soffocamento dopo aver assunto delle benzodiazepine e i sospetti si concentrarono subito su coloro che le erano più vicini: oltre alle figlie, anche il loro amante, Mirto Milani. Le prime furono intercettate mentre, parlando della morte della madre, pensavano a quanti soldi avrebbero potuto guadagnare dalla vendita dei suoi appartamenti.
Quando tutti e tre finirono in carcere, Milani confessò il delitto a un compagno di cella, che a sua volta ne parlò con gli agenti. Al termine del processo a loro carico sono stati condannati all’ergastolo e a sei mesi di isolamento diurno, ma anche al risarcimento delle parti civili: oltre alla terza figlia della vittima, Laura, la madre Marisa Cinelli e i fratelli Massimo e Michele Ziliani.
Il caso di Bolzano: la storia di Benno Neumair
La storia di Paola e Silvia Zani ricorderà a molti quella di Benno Neumair, che all’inizio del 2021 uccise i genitori Peter e Laura nell’abitazione in cui era da poco tornato a vivere insieme a loro, a Bolzano. Anche lui è stato condannato all’ergastolo: secondo i giudici di primo e secondo grado avrebbe soffocato i suoi familiari con una cordina d’arrampicata in piena capacità di intendere e di volere, gettandone i corpi nelle acque del fiume Adige, tentando di depistare le indagini e poi confessando “in un momento in cui il materiale probatorio raccolto era assolutamente sufficiente ad affermare la sua colpevolezza”.