Era un vecchio desiderio quello di visitare l’Albania. Approfittando di qualche giorno disponibile e di un tiepido febbraio, ho scelto come meta Tirana, un weekend lungo che mi ha permesso puntate in altre interessanti località come Cruja, Durazzo, Berat.

Un tassista politologo e uno distratto

Arrivo all’aeroporto di giovedì mattina ed il primo contatto con “ Il Paese delle aquile” è un simpatico tassista, che in tre minuti mi fa una specie di esame d’ingresso, informandosi del mio stato civile, lavorativo ed economico. Non mi chiede l’età, ma comunque valuta che posso essere ancora appetibile e mi invita a guardarmi intorno, toccandosi l’occhio con l’indice, alla ricerca di una moglie albanese. Quando gli dico come mi chiamo, mi risponde “Enrico Chiesa”, poi mi fa una sintesi della situazione socio-politica dei nostri due paesi: “Albània corruption, Giorgia little corruption, Andreotti bravo”, precisando che almeno lo era stato per l’Albània, ed io mi sono guardato bene dal chiedere chiarimenti.

Il mio albergo, il Radisson Collection, si trova in una zona residenziale, ai bordi del “lago secco”, una recente costruzione in una zona dove molti, spesso eleganti, nuovi edifici sorgono o sono in costruzione accanto a vecchie palazzine. Questo mix di vecchio e nuovissimo lo ritroviamo in tutta Tirana, almeno nella parte centrale, ma con minore estensione anche nel resto del Paese.

La mia visita al centro inizia con una disavventura: il tassista mi rilascia uno scontrino di 6700 Lek, la moneta locale che con l’euro ha un rapporto di 103 a 1. Decisamente troppi circa 60 euro per uno spostamento di 3/4 chilometri. Vado alla banca che risulta nello scontrino, la BKT, dietro il Museo nazionale e una gentile funzionaria, Eli Kola, mi ascolta e mi dice che contatterà l’agenzia dei taxi, cosa che farà in giornata. Il problema sarà risolto da Armela, addetta alla reception dell’Hotel: nel giro di mezz’ora viene in hotel il proprietario dell’agenzia che mi restituisce la somma pagata in eccesso, con scuse più volte ripetute.

Una realtà multiculturale e multireligiosa

Tirana è la più popolosa città dell’Albania, con circa 912.000 abitanti, quasi un terzo dell’intera nazione. Una capitale giovane, con una popolazione giovane, dove culture, religioni, stili architettonici diversi convivono e si mescolano: camminando nel centro, si vede Rruga Ismail Qemali incrociare Rruga Giovanni Paolo II. La nuova moschea costruita con fondi turchi ha alle spalle un longilineo e recente grattacielo, mentre non è difficile imbattersi in piazze dove si fronteggiano chiese e moschee. Più di quarant’anni di comunismo ateo non sono riusciti a sradicare le religioni dal “Paese delle aquile”, con una popolazione divisa fra cristianesimo ed Islam, con molteplici articolazioni: una chiesa ortodossa e un Islam sunnita maggioritari nei rispettivi ambiti, ma una minoranza “sciita” per un verso e cattolici e protestanti per un altro. Anche nei cimiteri, cristiani e musulmani riposano gli uni accanto agli altri, in tombe che per fattura spesso si confondono.

Poche le donne velate, anche nelle periferie, come nei paesi che ho percorso sulla strada per Cruja e Berat.

La Grande Moschea di Tirana, da poco terminata

La rimozione della dittatura comunista

Gran parte delle cose interessanti si trovano nel centro della città, a partire dalla centrale Piazza Skanderbeg, con la più antica moschea della città e il palazzo con il celebre mosaico che rappresenta la nazione, nel perfetto stile del realismo socialista: all’interno il museo con la storia nazionale, a partire dall’età della pietra, con tanto di ricostruzione di una grotta paleolitica, per poi documentare le origini illiriche, la presenza greca (l’Epiro del grande stratega Pirro era parte dell’odierna Albania) e i conflittuali rapporti con Roma, che non senza fatica ebbe la meglio sulle popolazioni autoctone. Un’ampia sezione riporta il periodo di Skanderbeg, considerato l’eroe eponimo dell’ indipendenza nazionale, così come un intero piano, l’ultimo, è dedicato alla prima metà del XX° secolo, ai rapporti con l’Italia, all’occupazione fascista ed alla resistenza nazionale contro i nazi-fascisti. Poi nulla. Con la fine del comunismo, nel 1990, ci fu una radicale rimozione delle sue tracce e della sua storia, quella che oggi si chiama “Cancel culture” e che investe ogni passato indesiderato, a prescindere dalle ideologie di chi “cancella” e di chi è “cancellato”.

Che il comunismo rappresenti una ferita ancora aperta, lo mostrano anche le tracce architettoniche della sua devastante e pluridecennale presenza nella vita della nazione. Luoghi come “La casa delle foglie morte”, centro della famigerata polizia segreta, la Segurini, o il sistema di bunker sotterranei, in buona parte visitabili, fatto costruire da Enver Hoxa, ossessionato da temuti attacchi atomici ed invasioni provenienti dal resto del mondo. Nel sistema delle gallerie sotterranee mi ha fatto da guida Alma, giovane signora di Tirana, che non riusciva a parlare con distacco del “dittatore” Hoxa e del suo regime, che forse incontrò negli anni della sua infanzia.

Una gioventù inquieta

Con il mondo dei giovani ho fatto una seppur superficiale esperienza attraverso due ragazzi, conosciuti abbastanza casualmente. Il primo, Erald, mi ha accompagnato con altri turisti a Cruja, antica capitale dell’Albania, con un castello-museo costruito all’epoca comunista. Un ragazzo di religione musulmana, della minoranza Bektashi, ma non molto coinvolto da questa fede, che si atteggiava a progressista, pur esprimendo idee e punti di vista abbastanza conservatori, in linea, credo, con le prospettive ancora tradizionaliste, per non dire misogene, di buona parte dell’emisfero maschile, anche delle nuove generazioni, soprattutto le più provinciali e meno acculturate. Con Erald siamo andati a cena in un locale assai interessante, dal nome curioso, “Cappelli”, con una fantastica vista su Tirana, esaltata dalle luci della notte, ed una cucina variegata e gradevole.

È arrivato all’appuntamento con una giovane ragazza, poco più che trentenne, intelligente, carina, inquieta. Abbiamo parlato della situazione dei giovani, degli ancora diffusi pregiudizi in materia sessuale, delle difficoltà di vivere con redditi bassi e alti costi della vita.

Il giorno dopo Erta, così si chiama la ragazza laureata in lingua e letteratura tedesca, mi ha accompagnato a Berat ed abbiamo avuto l’opportunità di parlare in dettaglio di aspetti che interessavano lei e la sua generazione. Su certe questioni mi è parsa assai decisa, come quando ha ribadito: “Non mi immagino il mio futuro in Albania”, oppure “Non mi piacciono i ragazzi albanesi, sono troppo conservatori e retrogradi”. Seppure espresso in altri termini, il senso del discorso era quello appena riportato. Parlava in un buon italiano, appreso come precedenti generazioni alla scuola della RAI, emittente ascoltata in tutta la nazione.

Una ragazza che ha vissuto lunghi periodi della sua vita in Italia e Germania, che conosce diverse lingue, che ha avuto esperienze lavorative in vari ambiti, ma che guarda oltre confine per le future prospettive lavorative, affettive, di vita. Che patisce come una sorta di ingiustizia il fatto che in quanto albanese vive una condizione di minori diritti e minore benessere, assieme a generazioni che l’hanno preceduta e che ora, semmai, devono cercare di sopravvivere con 400 euro di pensione al mese.

Centro storico di Berat, Patrimonio dell’UNESCO

L’economia illegale dietro le quinte

Le mie impressioni di febbraio, perché di impressioni si tratta, senza nessuna pretesa di analisi politiche/sociologiche, mi lasciano la sensazione di una realtà dinamica, anche con il suo risvolto confusionario, in crescita non sempre ordinata e programmata, con una forte presenza di stranieri, essenzialmente per motivi turistici e di business, con una gioventù irrequieta ed insieme disillusa, che spesso cerca altrove occasioni di vita e di realizzazione. Il Made in Italy ha molto successo, così come è diffusa la presenza di italiani in molti ambiti. Al museo nazionale di piazza Skanderberg c’è una mostra provvisoria su Paolo Rossi e la musica italiana, soprattutto d’annata, ad esempio Celentano, è assai conosciuta ed ascoltata, come la cucina: per strada, al centro, ci sono postazioni che vendono insieme gelati e pizza, mentre l’euro è usato indistintamente con la moneta locale, il Lek, in quasi tutti gli ambienti.

Una società sostanzialmente laica, dove la religione viene vissuta in modo abbastanza superficiale e disincantato, dove è difficile vedere donne velate o avvolte in scuri pastrani. Una società multiculturale e aperta agli stranieri, se non altro quelli che portano con il turismo e il business dinamismo e risorse.

Sono molte le “impressioni” che conservo, anche olfattive e visive: quella di una realtà fra l’Europa e il Medio Oriente, con la sua cucina speziata e i dolci tipici della tradizione ottomana; le arance locali vendute in cesti nei bordi delle strade di campagna; i grattacieli, svettanti come funghi alieni ed aggraziati fra i bassi edifici di una Tirana del Novecento; certi personaggi che pagano il conto, con mazzetti di euro nelle mani, a ribadire la presenza di un’economia più che sommersa illegale; le insegne che segnalano molte Università, albanesi e non;  Erta che ogni mattina controlla sul suo cellulare se è arrivata la risposta dal Consolato tedesco, alla richiesta del permesso per andare a lavorare in Germania. Una realtà che merita di essere conosciuta meglio.

Enrico Ferri, professore di Filosofia del Diritto all’Unicusano