L’abolizione della pena di morte in Italia segnò il passaggio da una giustizia punitiva ad una più umana e rispettosa dei diritti fondamentali dell’individuo. L’ultima condanna a morte in Italia avvenne poco dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, esattamente il 4 marzo 1947. Andiamo a vedere chi furono le ultime vittime della pena capitale nel nostro Paese e cosa accadde dopo.
L’ultima condanna a morte in Italia: la Costituzione Repubblicana e le riforme successive
Con l’entrata in vigore della Costituzione Repubblicana il 1° gennaio 1948, l’Italia fece un passo decisivo verso l’abolizione della pena capitale, proibendola per i reati commessi in tempo di pace. Questo cambiamento rifletté un profondo rinnovamento dei valori alla base del sistema giuridico italiano, orientato verso il rispetto della dignità umana. La legge costituzionale n. 2 del 2007 completò questo percorso, eliminando la pena di morte anche dal codice militare di guerra, sancendo così un’opposizione incondizionata alla pena capitale, indipendentemente dalle circostanze.
Gli antecedenti storici: dalla Toscana a San Marino
Il Granducato di Toscana, nel 1786, fu il primo Stato al mondo a bandire la pena di morte, seguito dalla Repubblica di San Marino nel 1865. Questi atti a suo tempo pionieristici rappresentarono i primi passi verso una concezione diversa della giustizia, influenzando anche altri Paesi nel lungo termine. Nel Regno d’Italia, la pena massima fu abolita nel 1889, reintrodotta durante il regime fascista nel 1926, e definitivamente eliminata con la Costituzione del 1948.
Anche lo Stato della Città del Vaticano ha avuto un ruolo in questo processo evolutivo, con l’abolizione della pena di morte nel 1969 per iniziativa di Papa Paolo VI. Ma è stato il 18 dicembre 2007 a segnare una data storica a livello internazionale, quando l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, su proposta dell’Italia e grazie all’impegno dell’associazione “Nessuno tocchi Caino“, approvò una moratoria sulla pena di morte, sostenuta da 104 Stati.
L’ultima condanna a morte in Italia, prima del cambiamento sociale
Nonostante l’abolizione ufficiale, l’ultima esecuzione capitale in Italia risale al 4 marzo 1947, un evento che sottolinea la complessità della transizione verso l’abolizione. I condannati, coinvolti in un efferato crimine di rapina e omicidio, furono giustiziati in un contesto di profondo cambiamento sociale e giuridico, in cui l’Italia cercava di superare le ferite del passato e riaffermare i principi di giustizia e umanità.
L’episodio in questione è uno dei casi più oscuri e violenti del dopoguerra italiano, ovvero la strage compiuta nella Cascina Simonetto, dove un gruppo di rapinatori, dopo essere stati riconosciuti, decise di uccidere tutti i presenti per non lasciare testimoni. Questo atto brutale culminò con l’esecuzione dei responsabili, che si tenne il 4 marzo 1947, rappresentando uno degli ultimi atti della pena di morte in Italia per crimini comuni, prima della sua abolizione con la Costituzione del 1948.
La strage della Cascina Simonetto: i fatti
La strage di Villarbasse, avvenuta il 20 novembre 1945, rappresenta un capitolo oscuro nell’immediato dopoguerra italiano e un momento significativo nella storia del diritto penale del paese, essendo, come detto, l’ultimo reato comune per cui fu applicata la pena di morte. Durante una rapina in una cascina nella provincia di Torino, dieci persone furono brutalmente massacrate da quattro uomini siciliani originari di Mezzojuso. Le vittime, colpite a bastonate, furono gettate ancora vive in una cisterna. Uno degli autori fu ucciso in Sicilia prima della cattura, in un regolamento di conti mafioso.
Questo evento è notevole per le sue implicazioni legali, poiché segnò l’ultima applicazione della pena di morte in Italia prima della sua abolizione con l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana il 1º gennaio 1948. La decisione di procedere con le esecuzioni, nonostante la pena di morte fosse già stata de facto abrogata, fu influenzata dall’efferatezza del crimine, che suscitò vasta indignazione pubblica.
Tra le vittime c’erano il proprietario della cascina, l’avvocato Massimo Gianoli, e diverse persone che stavano celebrando la nascita di una nipotina. I criminali, scoperti accidentalmente durante la rapina, decisero di eliminare tutti i testimoni. Dopo otto giorni di ricerche, i corpi furono scoperti in una cisterna.
Le indagini condussero all’arresto e alla confessione dei complici, che furono successivamente condannati a morte e giustiziati il 4 marzo 1947, segnando l’ultima esecuzione capitale in Italia. Inizio modulo
L’eredità del fascismo e il cammino verso la democrazia
Negli anni che seguirono il fascismo, l’Italia visse un periodo di intensa trasformazione politica e sociale. La caduta del regime, seguita dalla guerra, dall’occupazione tedesca, e dall’ascesa della Resistenza, fu l’incipit di un profondo rinnovamento che avrebbe portato il Paese dalla monarchia dei Savoia alla Repubblica e alla democrazia. In questo contesto, il concetto di giustizia subì profondi cambiamenti, influenzato ancora dalle pratiche punitive legate al recente passato fascista. Per trent’anni, la giustizia mantenne una dimensione ambigua, influenzata dal desiderio di vendetta e dallo “sdegno popolare” nei confronti dei crimini legati al fascismo, perpetuando così una certa accettazione della pena di morte.
Nonostante l’avanzamento verso una società più giusta e democratica, l’Italia degli anni ’70 mostrava ancora tracce della sua passata inclinazione verso la pena capitale. Questa era vista, in alcuni contesti, come uno strumento “didattico”, utilizzato dalle Brigate Rosse nel contesto della loro lotta contro lo Stato borghese, per impartire una lezione collettiva attraverso la morte di un individuo. La cultura della morte e l’esecuzione come espressione estrema di giustizia sembravano riflettere una complessa eredità culturale e storica, non ancora completamente superata.